Il giudice può ridurre d’ufficio il compenso dell’avvocato quando risulta manifestamente eccessivo, mediante la clausola della buona fede integrativa. Così la sentenza del tribunale di Treviso.
Una recente sentenza del tribunale di Treviso ha stabilito che il compenso dell’avvocato può essere ridotto d’ufficio dal giudice quando risulta essere eccessivo rispetto alla quantità e qualità della prestazione.
Il giudice di Treviso ha provveduto alla riduzione del compenso dell’avvocato anche se la tariffa in questione era stata pattuita ed accettata dal cliente. La scelta di ridurre il compenso prestabilito è stata giustificata dall’applicazione della “clausola della buona fede integrativa”, ovvero lo strumento di correzione del contratto che il giudice può attuare nel corso del giudizio.
La decisione del giudice ha suscitato molte perplessità poiché la tariffa pattuita rientrava nei parametri medi stabiliti dal decreto ministeriale n. 55 de 2014. Nello specifico il compenso dell’avvocato è stato ridotto da 2.500 euro a 1.250 euro.
Andiamo ad analizzare la questione più da vicino.
Il caso
Il tribunale di Treviso con sentenza dell’8 ottobre 2018 ha disposto la riduzione d’ufficio del compenso dell’avvocato intervenuto in udienza, nonostante la tariffa fosse stata accettata dal cliente.
Il giudice in questione ha effettuato la riduzione applicando la clausola della buona fede integrativa che consente ai giudici di correggere le disposizioni contrattuali scavalcando la volontà delle parti.
Dunque si tratta di una decisione che si discosta sensibilmente dall’orientamento giurisprudenziale più consolidato, secondo il quale le tariffe del professionista, quindi anche dell’avvocato, sono stabilite mediante pattuizione tra le parti e regolate dal principio della libertà contrattuale ex articolo 2233 del Codice civile.
Nel caso di specie, non solo il giudice ha ridotto una tariffa che era stata accettata dal cliente, ma non ha tenuto conto del fatto che il compenso richiesto fosse in linea con le tariffe stabilite dal decreto ministeriale n. 55 del 2014. In particolare l’avvocato aveva richiesto un compenso di 2.500 euro che il giudice ha ridotto a 1.250 euro dopo aver valutato la durata e la complessità della causa.
Il caso in esame si inserisce nell’ampio dibattito giurisprudenziale che riguarda la legittimità del giudice di interferire nella libertà contrattuale altrui, in particolare dell’avvocato. Andiamo ora a vedere qual è la posizione della giurisprudenza maggioritaria sul tema della riduzione del compenso degli avvocati.
Il compenso dell’avvocato e l’accordo delle parti
In merito alla riduzione del compenso dell’avvocato, la Corte di Cassazione ha una posizione molto diversa da quella del giudice di Treviso. Lo vediamo nella sentenza n. 25054 del 10 ottobre 2018 che ha ribadito la validità della convenzione tra avvocato e cliente nella determinazione del compenso. La decisione è supportata dall’articolo 2233 del Codice civile, che nel primo comma dice:
“Il compenso, se non e’ convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, e’ determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene”.
Dunque, secondo il Codice civile, il giudice può determinare la tariffa solo se manca l’accordo delle parti. Nel secondo comma, l’articolo 2233 precisa che:
“In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Sulla base di questo articolo non si spiega come mai il giudice abbia ritenuto di ridurre il compenso dell’avvocato che rientrava nelle tabelle stabilite con decreto ministeriale, tabelle che hanno lo scopo di assicurare un compenso “decoroso” per il lavoro svolto dall’avvocato. Addirittura ricordiamo che la legge prevede delle multe per gli avvocati che accettano tariffe irrisorie, non rispondenti al decoro professionale.
Il codice deontologico
In merito all’ammontare del compenso, il Codice deontologico forense prevede che la tariffa - anche se accettata dal cliente - debba essere adeguata all’attività svolta (quindi né troppo elevata né irrisoria). In particolare l’articolo 29 del vigente Codice deontologico recita che:
“L’avvocato non deve chiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta”.
Alla luce di questo articolo, l’intervento del giudice è ammesso quando il compenso è eccessivo. In qualsiasi caso ci teniamo a ricordare che la legge 124 del 2017 ha sancito l’obbligo in capo all’avvocato di fornire un preventivo scritto con la tariffa della prestazione, per fare in modo che il cliente possa fare le sue valutazioni prima di accettare il compenso richiesto.
Nonostante la chiarezza normativa, la scelta del tribunale di Treviso di ridurre il compenso dell’avvocato (anche se concordato tra le parti) evidenzia la complessità del rapporto tra l’autonomia contrattuale ed il potere di controllo del giudice sulle situazioni negoziali, argomento in continua evoluzione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Argomenti