Ad oggi l’inflazione sembra non fare più così paura. Per riaprire la discussione su un vero aumento dei prezzi, con relativo impatto sulle scelte di investimento, dovremo aspettare la primavera del 2022.
I prezzi delle azioni mondiali sono vicini ai massimi storici, mentre i rendimenti delle obbligazioni statunitensi hanno flirtano con i loro livelli più bassi in un mese, con il decennale USA all’1,50%.
Ciò significa che, per il momento, gli investitori scommettono che la Federal Reserve è ben lontana dal ridurre i suoi stimoli economici nell’anno corrente. Per questo a Wall Street nella serata dell’8 giugno, l’S&P500 era stabile e vicino al suo massimo storico, mentre il rendimento del debito americano a 10 anni è sceso è al suo livello più basso in un mese, giù di un quarto di punto percentuale dal picco di 14 mesi dell’1,776% raggiunto a marzo. Tale scenario sembra indicare che l’inflazione non faccia più tanta paura.
Perché l’inflazione oggi non fa paura
Non che non ci sarà un rialzo dell’inflazione, ma non sarà così prolungato nel tempo - forse solo per il 2° semestre del 2021. Infatti, poiché la ripresa del mercato del lavoro è contenuta, è improbabile che qualsiasi discussione alla Fed sul tapering (riduzione del piano di acquisto titoli mensile) prenda slancio. Molti Hedge Fund che avevano scommesso sull’irripidimento della curva dei rendimenti, cioè sul rialzo dei tassi sul tratto a lungo temine (10y e 30y), si sono ricreduti e stanno liquidando le loro posizioni di vendita allo scoperto, cioè si stanno ricomprando i futures su decennale USA e trentennale USA. Lo «smontaggio» di posizioni ribassiste sui futures obbligazionari alimenta così gli acquisti sui derivati e sul cash all’interno del mercato dei Treasury.
Il legame tra mercato del lavoro e inflazione
I dati sui libri paga statunitensi di venerdì 4 giugno hanno mostrato che le assunzioni non sono cresciute così velocemente come gli economisti avevano previsto, nonostante i crescenti segnali di carenza di manodopera. E anche la disoccupazione si dimostrata superiore al previsto (5,9% contro 5,8% atteso).
Molti analisti pensano che sarebbero necessarie più prove di una forte crescita dei posti di lavoro perché la Federal Reserve intensifichi la sua discussione sul tapering. Più volte infatti, la banca centrale americana ha detto che gli aumenti dell’inflazione in questo trimestre e nel prossimo sarebbero transitori e non minaccerebbero la stabilità dei prezzi, uno dei suoi mandati chiave.
Attenzione quindi ai dati del 10 giugno alle 14.30 ora italiana sui prezzi al consumo degli Stati Uniti, che dovrebbero mostrare che il tasso di inflazione annuale complessivo è salito al 4,7% e l’inflazione core al 3,4%. Non mi aspetto dati “surriscaldati”, cioè superiori alle aspettative di cui sopra. Certo, queste letture saranno comunque ben al di sopra dell’obiettivo di inflazione del 2% della Fed, ma molti economisti si aspettano che il tasso di inflazione si allenti nei prossimi mesi, permettendo alla Fed di aspettare prima di prendere qualsiasi misura di tapering.
La paura della Fed infatti è che rimuovendo troppo presto le misure di sostegno monetario, l’America possa ricadere in una recessione con nuovi aumenti della disoccupazione. L’inflazione per il momento è solo da rialzo del prezzo del petrolio, non da rialzo dei salari. Fra gli economisti circola una sorta di diffidenza sul fatto che un mercato del lavoro rigido possa portare a pressioni inflazionistiche inaspettatamente forti. Ma in realtà, al momento, i lavoratori non stanno tornando nelle fabbriche e negli uffici per vari motivi. Hanno sussidi di disoccupazione che valgono come, o addirittura di più, degli stipendi che troverebbero tornando a lavorare in azienda.
Ma alla fine torneranno al lavoro. E succederà quando i sussidi finiranno e quando le buste paga cresceranno. Prima o poi le aziende dovranno aumentare i salari. Ma per ora sembra più probabile il «poi» che non il «prima». Più probabile nel 2022 che nel 2021.
L’inflazione in Cina ed Europa
Anche i dati sull’inflazione dalla Cina hanno mostrato che l’indice dei prezzi alla produzione è salito del 9,0% rispetto a un anno prima, il risultato più alto in oltre 12 anni, ma solo a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, non dell’aumento dei salari. L’aumento dei prezzi al consumo, tuttavia, è stato più morbido del previsto, aiutando a mitigare le preoccupazioni. Mentre la banca centrale cinese sta lentamente riducendo gli stimoli dettati dalla pandemia, la PBOC (People’s Bank Of China) ha giurato di evitare qualsiasi brusca svolta di politica monetaria e di mantenere bassi i costi dei prestiti.
In Europa poi lo spettro dell’inflazione duratura è ancora un miraggio, visto che il prodotto interno lordo dell’area euro ha registrato ieri un «magro» -1,3% anno/anno per il 1° trimestre 2021 (negli USA è stato del +6,4% per lo stesso periodo) e l’indice CPI maggio uscito il 1° giugno rasentava a stento lo 0,9% anno/anno. Una disoccupazione media attorno all’8%, poi, denuncia una scarsa competizione tra datori di lavoro per accaparrarsi una manodopera abbondante in molti settori industriali. L’eccedenza di offerta di lavoro sulla domanda di lavoro rende improbabile un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto nei prossimi mesi. Anche qui dobbiamo dare ragione alla BCE sul fatto che – come dice la Fed – gli aumenti dell’inflazione saranno temporanei nel 2021.
Per quest’anno quindi possiamo tenerci le obbligazioni a 10 anni e 20 anni nel nostro portafoglio. Per riaprire la discussione sull’inflazione vera, cioè quella duratura quella innescata dalla spirale prezzi–salari, dovremo aspettare la primavera del 2022.
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