“Siamo infermieri, non eroi e chiediamo un salario adeguato”. A due mesi dall’emergenza coronavirus Money.it intervista un’infermiera che ci ha parlato di come è cambiato il lavoro in periodo di emergenza, di sicurezza, contratto e retribuzione ancora al di sotto degli standard europei.
“Siamo infermieri, non eroi e chiediamo un salario adeguato”. Questo è il racconto che arriva da un ospedale del Centro Italia, da un’infermiera, Sara (nome di fantasia), che va ogni giorno al lavoro con la consapevolezza che esiste un pericolo, ma che va affrontato con la stessa determinazione di sempre, come prima dell’arrivo del COVID-19.
Sara lavora in un Pronto Soccorso, è una giovane infermiera, ma che ha già un lungo percorso alle spalle. Money.it ha parlato con lei per cercare di capire da vicino cosa significa essere infermieri oggi con un’emergenza sanitaria in atto.
Li chiamiamo eroi, ma sappiamo da sempre che gli infermieri, oggi sottoposti anche a orari massacranti e a un rischio altissimo, percepiscono una retribuzione molto al di sotto degli standard europei.
Di questo abbiamo parlato con Sara, che non vuole essere un’eroina perché anche prima del coronavirus ha visto la sofferenza, ma anche l’indifferenza e la noncuranza verso la sua categoria. Dalle sue parole traspare passione per il suo lavoro e la difficoltà ad accettare la distanza che inevitabilmente oggi si pone, come regola, nella cura dei malati. Pazienti soli per i quali l’unico conforto resta un volto dietro una mascherina.
Domanda: A due mesi dall’inizio dell’emergenza coronavirus com’è cambiato il vostro mestiere (anche in una realtà che non è quella lombarda o veneta)?
Risposta: Da quando è iniziata l’emergenza la nostra attività professionale si è modificata totalmente. Ne ha risentito l’aspetto tecnico e ogni procedura è diventata più complessa nella sua esecuzione, ma soprattutto ne ha fatto le spese la sfera relazionale.
Il codice deontologico degli infermieri, all’art. 4, recita testualmente: “Il tempo di relazione è tempo di cura” , ma purtroppo relazionarsi dietro una barriera e solo per il tempo strettamente necessario a garantire la prestazione tecnica, con il peso del terrore di potersi contagiare, è molto difficile. È un po’ come comunicare da due stanze diverse. Mi sentirei di dire che in questo momento, in questo senso, curiamo “distanza”, ci relazioniamo molto meno con i nostri pazienti, offriamo loro la nostra assistenza in una forma assolutamente diversa, molto più essenziale.
D: Sentiamo da testimonianze e inchieste giornalistiche che mancano dispositivi di sicurezza quali mascherine, guanti, visiere, camici (abbiamo impresse nella memoria le immagini del personale sanitario che si copre con i sacchi dell’immondizia) sta migliorando la situazione?
R: All’inizio è stato abbastanza difficile reperire i dispositivi di protezione perché le aziende, colte impreparate, ne erano sprovviste. La situazione rispetto ai primi tempi è nettamente migliorata, c’è stato un buon reintegro di materiale e ci sono state molteplici donazioni da parte di aziende private che ci hanno sostenuto e sollevato moltissimo. Io personalmente molto ho acquistato in autonomia, in tempi non sospetti, investendo il mio denaro.
Siamo comunque sempre costretti a fare un uso oculato e parsimonioso di tutto ciò che abbiamo ma mi sento di dire anche che, essendo stati poco abituati e quindi non del tutto istruiti alle procedure di vestizione/svestizione (che richiedono comunque una formazione) nel tempo abbiamo anche imparato a gestire i presidi con un’attenzione differente, che forse all’inizio era un po’ carente.
D: Un altro tema fondamentale, nell’ambito della sicurezza sul lavoro, è quello dei tamponi: a voi personale sanitario il tampone viene fatto e se sì in quali casi? Se no perché? A chi viene data la priorità? Nei casi in cui è stato fatto il risultato è stato tempestivo o si è continuato a lavorare perché manca personale?
R: Siamo stati sottoposti a tampone circa una quindicina di giorni dopo l’inizio dell’emergenza. Prioritariamente è stato sottoposto il personale che aveva avuto contatti con soggetti risultati positivi, successivamente tutti gli altri. A distanza di ulteriori quindici giorni, essendo entrati nel programma di sorveglianza sanitaria, ci è stato richiesto di ripetere l’ esame. Il risultato richiede circa 12 ore e nel frattempo, come da disposizioni regionali, se asintomatici abbiamo continuato a lavorare.
D: I turni che siete chiamati a fare superano spesso, dalle testimonianze che stiamo ricevendo in questi giorni, l’orario di lavoro. Gli straordinari vi vengono pagati?
R: È stato necessario potenziare alcuni turni e ci è stato richiesto di lavorare di più. La mia azienda in questo ci è venuta incontro attivando un piano straordinario per le turnazioni d’emergenza nei reparti COVID-19 o nelle cosiddette “zone grigie” in cui è stato previsto un pagamento differenziato. Non del tutto adeguato, a mio parere, rispetto a quanto abbiamo appreso da colleghi di altre Regioni che riceveranno compensi ben più alti rispetto al rischio che comporta lavorare in certi ambienti.
D: La Regione Lazio, così come altre Regioni, ha sottoscritto un accordo con i sindacati per 1.000 euro in più agli operatori sanitari impegnati nell’emergenza: credi siano sufficienti?
R: Non sono sufficienti, ma a mio parere non sarebbe sufficiente nessuna cifra. Purtroppo in questo momento siamo identificati come eroi perché stiamo combattendo in prima linea una battaglia contro un mostro invisibile che spaventa tutti, ma io non mi sento un’eroina oggi. Mi sentivo eroina anche prima, ogni giorno. Non esiste solo il COVID-19 e ci sono moltissime patologie che si possono contrarre negli ambienti sanitari, ancor più nei pronto soccorso dove si combatte sempre in prima linea contro l’ignoto e dove si assistono centinaia di persone al giorno che potrebbero essere potenzialmente portatrici di qualsiasi forma di altra malattia trasmissibile. Onestamente mille euro non mi lusingano, ma rappresentano per me un contentino. Sarei molto più felice se qualcuno, finalmente, si rendesse conto del nostro operato a tutti i livelli riconoscendo la nostra professione e adeguando il nostro contratto, e quindi la nostra retribuzione, agli standard europei.
D: Tra le richieste di FNOPI vi è, oltre al contratto di area anche l’infortunio che venga riconosciuto come malattia professionale. In Italia sono morti in due mesi circa 28 infermieri e 8mila si sono ammalati. Cosa succede in questi casi al livello di tutela?
R: Sinceramente non mi sento di fornire una risposta strettamente tecnica perché non sono adeguatamente informata, purtroppo. Presumo, ahimè, che non succeda assolutamente nulla. Contrarre il COVID-19 non fa alcuna differenza, non si è tutelati in modo diverso. Per questo il mio discorso precedente sui mille euro: che senso hanno? Nessuno, soprattutto se consideriamo che, per chi ci governa, è un evento accidentale che fa parte del gioco alla stregua di un piede rotto perché ti ci è caduta sopra una flebo!
D: Il coronavirus ha messo in luce un problema importante: i tagli alla Sanità Pubblica con una crescita della privata. Ora si dimostra in tutta la sua forza l’importanza del pubblico in una così grande emergenza. Come ha influito tutto ciò sul vostro lavoro negli anni e sulla vostra formazione?
R: Io ho iniziato la mia attività professionale nella pubblica amministrazione nel 2016 quando già parecchio era stato privatizzato. Non ho quindi personalmente vissuto questo salto in modo netto. Quello che però posso sicuramente affermare, avendo vissuto un lungo periodo professionale presso un’azienda sanitaria dell’estremo Nord in una Regione a statuto speciale, è una grandissima differenza di risorse economiche investite sulla formazione, sulle risorse umane, sull’attività professionale in senso stretto. Ho notato un forte divario, un’attenzione differente verso la «cultura della formazione» nonché verso l’obbligo aziendale di formare il proprio personale. Lo stesso per l’attività professionale in senso stretto che vedevo facilitata grazie alla presenza di presidi sempre avanzati ed adeguati al caso, difficilmente carenti.
D: Non temi che sarete dimenticati non appena sarà finita la tempesta?
R: Saremo sicuramente dimenticati, torneremo ad essere il branco di nullafacenti che eravamo per i più fino pochi mesi fa quando i tempi di attesa nei Pronto Soccorso erano ancora molto lunghi e le sale di attesa impropriamente pullulanti di utenti impazienti di essere visitati. Ma la mia risposta credo di averla già data.
Non mi sento un’eroina oggi perché mi scontro quotidianamente con la malattia, non solo COVID-19. Vivevo e vivo la mia professione con orgoglio ogni giorno, sempre. Non ho paura di essere dimenticata!
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