Il Governo dice sì alla pensione a 64 anni, ma solo con penalizzazione. Ecco perché il costo da pagare per un anticipo di tre anni potrebbe essere eccessivo.
Il Governo ha dato il via libera per una nuova opzione di pensionamento anticipato: anziché a 67 anni, come previsto oggi per la pensione di vecchiaia, si potrà andare in pensione a 64 anni di età e 20 anni di contributi.
Una novità importante su cui il Governo ne sta ancora discutendo con i sindacati ai quali questa proposta non convince. Il motivo è chiaro: l’Esecutivo pretende che ci sia un “prezzo” da pagare per andare in pensione prima, prevedendo un ricalcolo interamente contributivo per coloro che escono dal mercato del lavoro a 64 anni.
I sindacati, ben consapevoli di quanto già succede per Opzione Donna - dove il ricalcolo contributivo dell’assegno comporta una penalizzazione di circa il 30% (la percentuale varia a seconda dei casi, in base alla posizione contributiva dell’interessata) - non sono convinti della bontà di una tale opzione e chiedono al Governo di pensare a un piano B, ad esempio a una penalizzazione di circa il 3% per ogni anno di anticipo (quindi del 9% per coloro che vanno in pensione a 67 anni).
Se ne discuterà, ma una cosa è certa: chi aspetta con ansia novità da parte del Governo deve sapere che andare in pensione prima comporterà un netto taglio dell’importo dell’assegno futuro, qualunque sia la penalizzazione individuata nel corso delle trattative.
Perché andare in pensione a 64 anni non conviene
Già oggi ci sono delle opzioni che consentono di andare in pensione a 64 anni di età. Si pensi, ad esempio, all’opzione contributiva della pensione anticipata, la quale consente il collocamento in quiescenza ai contributivi puri che oltre ad aver compiuto i 64 anni di età e ad aver maturato almeno 20 anni di contributi hanno - alla data del pensionamento - raggiunto una pensione d’importo pari o superiore a 2,8 volte l’assegno sociale.
Tuttavia, nelle attuali regole utilizzate per il calcolo della pensione ci sono già dei fattori che penalizzano coloro che scelgono di anticiparne l’accesso. Ad esempio, per quanto riguarda la quota contributiva dell’assegno viene stabilito che il montante contributivo (ossia il complesso dei versamenti contributivi effettuati e rivalutati negli anni) si trasforma in pensione lorda applicando un coefficiente di trasformazione tanto più alto quanto più si ritarda l’accesso alla pensione.
Ad esempio, secondo la tabella aggiornata per il biennio 2021-2022, il coefficiente di trasformazione a 64 anni è pari a 5,060%, mentre a 67 anni è del 5,575%.
A parità di montante contributivo, ad esempio 200.000,00€, chi va in pensione a 67 anni avrà diritto a un importo di pensione più elevato:
- pensione a 64 anni: 10.120,00€ annui
- pensione a 67 anni: 11.150,00€ annui
Solo così, quindi, c’è da considerare un taglio di circa 1.000,00€. Ma bisogna pensare anche che ci sono persone che accettano di andare in pensione a 64 anni anziché continuare a lavorare fino a 67 anni. In questo caso la penalizzazione è maggiore, in quanto bisogna considerare che continuando a lavorare - e quindi a versare contributi - anche il montante contributivo sarebbe stato più alto.
Pensiamo, ad esempio, al caso di colui che lavorando per ulteriori 3 anni accumula altri 40.000,00€ nel montante contributivo. Arrivando a 240.000,00€, questo avrebbe diritto a una pensione - calcolata su un coefficiente di trasformazione del 5,575% - pari a 13.380,00€ annui.
Andare in pensione a 64 anni con la penalizzazione conviene ancora meno
Come anticipato, il Governo ha chiesto ai sindacati di valutare la possibilità di un pensionamento anticipato a 64 anni con ricalcolo interamente contributivo dell’assegno. Questo significa che anche i periodi accreditati prima del 1° gennaio 1996 (o del 1° gennaio 2012 in alcuni casi) sarebbero soggetti alle regole del contributivo, anziché a quelle del retributivo.
Ciò comporterà un’ulteriore penalizzazione, tanto più elevata quanto più è significativa la quota di contributi soggetta alle regole del retributivo.
Facciamo un esempio per capire meglio.
Il lavoratore del caso di prima che con un montante contributivo di 200 mila euro può anche vantare 10 anni di contributi nel retributivo.
Qui le regole del calcolo della pensione sono differenti: volendo semplificare, infatti, possiamo dire che per ogni anno di contributi spetta un 2% della media delle ultime retribuzioni. Considerando una RAL media di 40.000,00€, ne risulta che questo una volta in pensione avrebbe diritto a un’ulteriore quota retributiva di 8.000,00€ annui, ossia il 20% delle ultime retribuzioni.
Il Governo chiede però che anche quei 10 anni di contributi dovranno essere soggetti alle regole del contributivo. Per quegli anni, dove probabilmente il lavoratore avrà anche guadagnato meno rispetto a quanto fatto a fine carriera, dovranno essere considerati i versamenti contributivi i quali si vanno ad aggiungere al montante contributivo.
Pensiamo che in quei 10 anni questo abbia avuto una retribuzione media di 25.000,00€: per ogni anno di lavoro ha quindi versato 8.250,00€, per un totale di 82.500,00€ in 10 anni.
Questa somma si va ad aggiungere al montante contributivo, che sale così a 282.500,00€ (al netto delle rivalutazioni), con una pensione annua complessiva di circa 14.295€.
Ma quale sarebbe stato l’importo senza ricalcolo interamente contributivo? Come visto sopra, la quota retributiva era pari a 8.000,00€, mentre quella contributiva a 10.120,00€. Di conseguenza, senza ricalcolo l’importo della pensione sarebbe stato pari a 18.120,00€; con il ricalcolo, quindi, questo andrebbe a perdere poco meno di 4.000€.
La soluzione proposta dai sindacati
La contro proposta dei sindacati è differente: prevedere una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo. In questo modo, sull’importo totale di 18.120,00€ - riprendendo l’esempio di sopra - bisognerebbe applicare un taglio del 9%, con un’ulteriore decurtazione di 1.630,80€, un costo che secondo le parti sociali sarebbe adeguato.
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