La pressione politica e i dazi mettono a rischio le relazioni economiche tra USA e Cina.
Donald Trump, al Forum economico mondiale di Davos, ha ribadito il suo approccio: “Producete in America o pagherete i dazi”. Un messaggio chiaro, accompagnato dalla promessa di tasse ridotte per le aziende che scelgono gli Stati Uniti come base produttiva, e dalla minaccia di tariffe punitive per chi continua a operare all’estero.
Al centro della sua strategia c’è la Cina, accusata di mantenere un rapporto commerciale squilibrato e definita “principale avversario economico” dagli esponenti repubblicani più vicini al presidente. La proposta di nuove misure protezionistiche, come la revoca dello status commerciale preferenziale concesso a Pechino, è chiaramente pensata per ridurre la dipendenza americana dalle importazioni cinesi e quindi riportare produzione e posti di lavoro sul territorio nazionale.
Le aziende cercano alternative
Le tensioni crescenti tra i due paesi stanno già spingendo molte imprese statunitensi a rivedere radicalmente i propri piani operativi. Secondo un’indagine condotta dalla Camera di commercio americana in Cina, il 30% delle aziende statunitensi attive nel paese ha iniziato a esplorare soluzioni alternative, molte delle quali stanno valutando di trasferire parte o tutta la produzione in altre nazioni. Parliamo di un dato particolarmente significativo, il doppio rispetto al 2020, che segnala una svolta rispetto alla tradizionale dipendenza delle imprese dal mercato cinese come polo di produzione e consumo.
A influenzare questa decisione non è solo il clima di incertezza generato dalle politiche commerciali statunitensi, ma anche una serie di fattori interni alla Cina. Tra questi spiccano le regolamentazioni sempre più stringenti, il rallentamento della crescita economica e una competizione interna sempre più agguerrita. Inoltre, la pandemia di Covid-19 e le conseguenti interruzioni delle catene di fornitura globali hanno messo in evidenza la vulnerabilità del modello basato sulla concentrazione della produzione in un unico paese, spingendo molte aziende a diversificare le proprie fonti e a guardare verso altri mercati emergenti o verso un ritorno alla produzione domestica. Questo “esodo pianificato” è espressione di un cambiamento strutturale nel modo in cui le imprese considerano il mercato cinese: da pilastro indiscusso della “nuova” globalizzazione economica a scelta sempre più complessa e non esente da rischi.
Ripercussioni globali
L’attuale strategia di Trump mira a rafforzare l’industria americana, ma rischia di generare effetti collaterali significativi. Una riduzione delle esportazioni cinesi potrebbe destabilizzare le filiere globali, soprattutto in settori strategici come l’automotive e l’elettronica. Anche gli alleati europei stanno adottando un approccio più cauto verso la Cina, come dimostra la Germania, che ha superato il colosso asiatico come primo partner commerciale degli Stati Uniti. Lo spostamento riflette una tendenza più ampia alla diversificazione dei mercati e alla riduzione delle dipendenze economiche. Quali saranno le conseguenze?
In definitiva, ad oggi la pressione politica e la minaccia di nuovi dazi da parte di Trump stanno portando molte aziende americane a riconsiderare il proprio futuro in Cina. Il ritorno del cosiddetto “America First” promette di ridisegnare il panorama economico globale, ma non senza costi e incertezze. Come sottolineato dallo stesso presidente al Forum economico mondiale: “La politica aggressiva di Trump sulla Cina sta spingendo molte aziende statunitensi a cercare alternative. Il ritorno dell’America First e la minaccia di nuovi dazi lasciano presagire un cambiamento epocale per le relazioni commerciali tra i due giganti economici”. Il mondo sta cambiando, e non c’è certezza che stia cambiando in meglio.
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