Entro il 15 novembre gli Stati membri dovranno adeguarsi alla direttiva Ue sul salario minimo. In arrivo aumenti di stipendio, ma l’Italia è già in regola.
Entro il 15 novembre 2024 gli Stati membri devono adeguarsi alla direttiva europea n. 2041 del 2022 sul salario minimo, la quale garantirà un aumento di stipendio ai lavoratori di alcuni Stati membri.
Vi anticipiamo che quella che è stata rinominata come direttiva sul salario minimo non trova applicazione per l’Italia, in quanto il nostro Paese, almeno secondo i più recenti dati forniti dal Cnel, supera il tasso di copertura della contrattazione collettiva oltre il quale non è obbligatorio ricorrere al salario minimo (che qualche mese fa è stato definitivamente bocciato dalla maggioranza, per quanto in questi giorni sembra che l’opposizione proverà a riproporlo).
Diverso il caso di quei Paesi che invece hanno adottato il salario minimo, come pure per quelli che sono sprovvisti di una regolamentazione in materia e neppure con la contrattazione collettiva riescono a garantire le tutele minime alla maggior parte dei lavoratori, per i quali il termine del 15 novembre è vicino.
Cosa prevede e chi riguarda la direttiva sul salario minimo Ue
La direttiva Ue prevede diverse misure che - per quanto non vincolanti - invitano i governi nazionali ad adottare misure che possano potenziare il salario minimo.
Nel dettaglio, questa prevede:
- ampliamento della platea dei lavoratori per i quali è previsto un salario minimo;
- definizione di misure volte a garantire l’adeguatezza del salario minimo, ad esempio valutando la possibilità di rivalutarlo almeno ogni due anni tenendo conto dell’andamento dei prezzi, mantenendo quindi inalterato il potere d’acquisto.
Un “invito” che vale per quei Paesi Ue che hanno adottato il salario minimo, tutti eccetto l’Austria, Cipro, la Danimarca, la Finlandia e la Svezia, i quali vengono quindi invitati a valutare la possibilità di introdurlo nel caso in cui la contrattazione collettiva non sia sufficientemente rappresentativa. E anche l’Italia appunto, della quale però parleremo separatamente.
Gli aumenti di stipendio annunciati in Europa
A tal proposito, sono diversi i Paesi che già hanno adottato le disposizioni previste dalla suddetta direttiva. Ad esempio, in Romania dal 1° gennaio 2025, circa un terzo della forza lavoro a tempo pieno, pari a circa 1,8 milioni di persone a basso reddito, beneficerà delle nuove disposizioni sul salario minimo derivanti dalla direttiva 2041/2022. Attualmente, il salario minimo in Romania è circa il 40% del salario medio lordo, ma si prevede che aumenterà tra il 48% e il 52% entro il 2025, secondo le stime della Commissione Nazionale Strategia e Previsione.
Così come un aumento del salario minimo sarà previsto da gennaio 2025 in Germania, dove si salirà da 12,41 a 12,81 euro lordi. Un aumento di 0,40 centesimi che può sembrare di poco conto, ma al mese - considerando una settimana lavorativa fatta di 40 ore, significano circa 64 euro lordi in più.
Aumenterà già dall’1 novembre, invece, il salario minimo in Francia. Qui, dove il salario minimo viene adeguato annualmente all’inflazione, è previsto un incremento del 2% che porterà la soglia minima oraria lorda da 11,65 a 11,88 euro, mentre quella mensile (netta) da 1.398,60 a 1.426,67 euro (per una settimana fatta di 35 ore). Il salario minimo mensile lordo sarà invece pari a 1.802,25 euro.
Un aumento è in programma dall’1 gennaio 2025 anche in Polonia, dove il salario minimo salirà a 30,50 Pln l’ora (poco più di 7 euro) mentre il salario minimo mensile a 4.666 Pln (circa 1.080 euro al tasso di cambio attuale).
Un aumento, sempre da gennaio 2025, è stato annunciato anche in Repubblica Ceca, dove da gennaio il salario minimo passa da 18.900 a 20.800 corone lorde (circa 1.176 euro).
E l’Italia?
Come anticipato l’Italia non è interessata dalla direttiva, o meglio è già in regola secondo i principi dettati dalla stessa. Qui, infatti, si legge che ogni Stato membro “qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%” dovrà prevedere un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, oltre a definire un piano di azione per promuoverla.
In Italia, secondo i dati Cnel, siamo vicini al 100% di copertura, quindi siamo già in regola. Per quanto comunque serva risolvere il problema del dumping contrattuale, ossia di quel fenomeno ancora diffuso dove ci sono datori di lavoro che sottoscrivono accordi collettivi con sigle sindacali minori e con condizioni economiche, e non solo, meno favorevoli per il lavoratore.
Per quanto i nostri lavoratori possano fare affidamento su una tutela garantita dalla contrattazione collettiva molto più sviluppata che altrove, permangono i problemi con lavoratori che percepiscono una paga oraria più bassa rispetto alla soglia di salario minimo che vorrebbero fissare le opposizioni, pari a 9 euro lordi l’ora.
A tal proposito, il governo sta lavorando a una soluzione. Contestualmente alla bocciatura per il salario minimo, infatti, la maggioranza, su spinta dell’onorevole Walter Rizzetto, presidente della commissione Lavoro alla Camera dei Deputati, ha impegnato il governo a valutare le misure necessarie per rafforzare la contrattazione collettiva, in direzione di una previsione di un trattamento economico complessivo minimo. Nel dettaglio, andranno valutati i contratti più rappresentativi in ogni settore, così da definire una soglia minima a cui tutti gli altri contratti dovranno adeguarsi.
Tuttavia, per quanto l’emendamento abbia previsto un termine di 6 mesi, a oggi i lavori per un rafforzamento della contrattazione collettiva appaiono piuttosto fermi, per quanto comunque in diversi settori siano stati da poco raggiunti gli accordi per i rinnovi con tanto di aumenti in arrivo nei prossimi mesi nelle tasche dei lavoratori interessati.
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