In alcune circostanze sussiste un divieto di licenziamento, che se non rispettato espone il datore di lavoro a una serie di spiacevoli conseguenze.
Il licenziamento è quell’atto con cui il datore di lavoro recede unilateralmente dal rapporto di lavoro. Il licenziamento, salvo alcuni casi, deve essere sempre motivato da giusta causa o da giustificato motivo (oggettivo o soggettivo), e inoltre ci sono alcuni casi specifici per cui il nostro ordinamento riconosce un vero e proprio divieto di licenziamento.
In determinate situazioni, quindi, il potere del datore di lavoro di poter interrompere il rapporto di lavoro si scontra con i vincoli imposti dal legislatore. La normativa, infatti, riconosce un elenco di situazioni in cui il recesso da parte del datore di lavoro è vietato, pena una sanzione per licenziamento nullo che oltre a portare al reintegro del dipendente sul posto di lavoro può prevedere il pagamento di un’indennità risarcitoria.
È dunque importante comprendere in quali casi non si può licenziare un dipendente, così da non commettere errori che potrebbero costare caro all’azienda.
Quando è vietato licenziare
Ci sono dei periodi in cui il datore di lavoro non può licenziare i propri dipendenti senza rischiare l’impugnazione dello stesso. Nel dettaglio, nei seguenti casi il licenziamento è considerato nullo, con il reintegro al lavoro e il rimborso delle retribuzioni spettanti per il periodo intercorso:
- matrimonio della lavoratrice: ai sensi dell’articolo 35, D.Lgs. 198/2006, è vietato il licenziamento nel periodo che va dalla richiesta di pubblicazione a un anno dopo la celebrazione delle nozze, regola che tuttavia vale solamente per le dipendenti;
- gravidanza e maternità: per quanto riguarda le lavoratrici vi è un secondo vincolo, in quanto il datore di lavoro non può procedere con il licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio del periodo di gravidanza all’anno di età del bambino, come stabilito ai sensi dell’articolo 54 del D.Lgs. 151/2001;
- infortunio o malattia: non si può licenziare il dipendente nel periodo di malattia o infortunio. Tuttavia, legge e contratti collettivi fissano un termine, conosciuto come periodo di comporto, oltre il quale se l’assenza si prolunga è possibile comunque recedere unilateralmente il contratto;
- richiamo alle armi: ormai in disuso, speriamo per molti anni ancora, il divieto di licenziamento per il lavoratore che viene richiamato alle armi. Il divieto resta valido fino a 3 mesi dalla ripresa dell’occupazione;
- sciopero: come stabilito dalla Legge n. 300/1970 non è possibile licenziare un dipendente che partecipa ad azioni di sciopero;
- incarichi sindacali: il divieto di licenziamento vale anche nei confronti dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali e dei membri di commissione interna. Il vincolo sussiste fino a un anno dalla cessazione dell’incarico, mentre è solo di tre mesi dalle elezioni per i candidati non eletti.
Assolutamente vietato anche il licenziamento discriminatorio, inteso come quel recesso che è determinato da ragioni di tipo politico o di fede religiosa, come pure dal fatto che il dipendente partecipi attivamente alle attività sindacali. Si considera come licenziamento discriminatorio anche quello motivato da ragioni di etnia, lingua od orientamento sessuale.
Quali sanzioni per il datore di lavoro che licenzia nonostante un divieto
In questi casi il nuovo regime sanzionatorio, contenuto nel D.Lgs. 23/2015, prevede una tutela piena nei confronti del dipendente licenziato, riconoscendogli il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre a un risarcimento del danno il cui valore non può essere inferiore a 5 mensilità di stipendio.
Il divieto di licenziamento non è assoluto
È bene però sottolineare che nei casi sopra indicati non sussiste un divieto assoluto di licenziamento. Il legislatore, infatti, riconosce una serie di deroghe in cui l’azienda può interrompere unilateralmente il contratto anche quando si è all’interno di un periodo vietato.
Ad esempio, si può procedere comunque con il licenziamento quando:
- sussiste la giusta causa di licenziamento, ossia quando il lavoratore o la lavoratrice sono colpevoli di un fatto che compromette il rapporto di fiducia instauratosi con il suo datore di lavoro;
- cessazione dell’attività aziendale. A tal proposito, in più sentenze la Corte di Cassazione ha ribadito che il licenziamento è consentito solamente in caso d’interruzione totale dell’attività aziendale, mentre non è ammesso qualora si tratti di una chiusura del ramo aziendale, o del reparto, di cui fa parte il lavoratore;
- ultimazione della prestazione per la quale il dipendente (o la dipendente) era stato assunto.
Inoltre, anche se in questo caso non si può parlare di licenziamento, è autorizzata anche la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine per il quale è stato stipulato, quindi alla scadenza del contratto a tempo determinato.
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