I numeri del rapporto 2018 della Corte dei Conti di fatto bocciano l’attuale proposta governativa sulla flat tax. Ecco perché.
La Corte dei Conti ha pubblicato il rapporto 2018 sul coordinamento della finanza pubblica italiana.
Come ogni anno, lo studio in oggetto evidenzia molti aspetti davvero interessanti sul funzionamento dei conti dello Stato. Nella fattispecie, assumono grande rilevanza i numeri relativi alla progressività del sistema tributario (il cui cardine principale è ovviamente rappresentato dall’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche).
È abbastanza naturale il confronto con le attuali proposte governative in materia di flat tax o tassa piatta, considerando la complessità dell’attuale sistema tributario basato sull’Irpef.
I numeri confermano quanto già discusso qui su Money.it nei mesi scorsi: la flat tax o tassa piatta così come viene attualmente proposta favorirebbe nettamente i redditi dei ricchi, penalizzando le fasce basse della popolazione che già pagano aliquote di fatto molto basse per effetto del sistema delle detrazioni fiscali.
Flat tax o tassa piatta: i numeri della Corte dei Conti bocciano la proposta attuale del Governo a guida Lega M5S
Il rapporto 2018 sull’andamento della finanza pubblica in Italia è stato pubblicato ieri sul sito istituzionale della Corte dei Conti.
Flat tax e Irpef: ecco le distorsioni dell’attuale sistema tributario. I numeri confermano che la tassa piatta così come proposta dal Governo penalizza i redditi bassi:
“Sul tema delle entrate ritornano diversi contributi contenuti nel Rapporto. In tutti si sottolinea come nel confronto europeo, l’Italia si colloca tra i paesi che meno hanno inciso sulle entrate per risanare il bilancio pubblico: l’aumento della pressione fiscale tra il 2007 e il 2017 è stato modesto se confrontato con la media dell’area, pari a meno di un punto di Pil, e si è concentrato soprattutto nella prima metà del decennio, come conseguenza dell’insorgere della crisi del debito.Negli anni più recenti, anche grazie alla flessibilità concessa dalle Autorità europee rispetto al raggiungimento dei target, l’Italia ha allentato la stretta di bilancio e progressivamente ridotto la pressione fiscale rispetto al picco raggiunto nel 2012 (tabella 7). Le manovre annuali di bilancio 2013-2017 sono state basate sulla scelta di rafforzare gli interventi di alleggerimento fiscale e contributivo a favore di famiglie ed imprese, ricorrendo sia ad ulteriori forme di agevolazioni straordinarie (le c.d. spese fiscali), sia con modifiche dei regimi strutturali di alcuni tributi.La ricomposizione delle entrate assume una connotazione più chiara soprattutto nel riorientamento degli interventi a favore del sistema produttivo (del totale degli sgravi e delle agevolazioni che emergono dalle manovre prese in esame per il quinquennio 2013-2017, ben tre quarti riguardano misure di sostegno alle imprese).Alcune delle linee di intervento, tuttavia, denotano ancora un grado di definizione incompiuto e una difficile collocazione in un disegno più organico e sistematico di riforma del nostro sistema fiscale, alimentando la percezione di un sistema iniquo e distorto.La crisi ha riacceso l’attenzione sulla capacità del sistema tributario di assicurare il finanziamento della spesa pubblica sulla base della capacità contributiva dei singoli, come prescrive la Costituzione, riducendo le sperequazioni della distribuzione primaria del reddito e aumentando le disponibilità monetarie delle fasce più povere di popolazione.In Italia oltre il 35 per cento del gettito è assicurato da meno del 5 per cento dei contribuenti, collocati negli ultimi due scaglioni di imposta; il 44 per cento dei soggetti rientranti nel primo scaglione contribuisce, invece, al gettito per poco più del 4 per cento.L’obiettivo di spostare il carico fiscale sui soggetti con maggiori disponibilità appare, quindi, conseguito.Ma è proprio la distribuzione primaria del reddito che costituisce il maggior fattore di fragilità: la netta prevalenza di redditi bassi (il valore mediano della distribuzione è appena di 16mila euro, quello medio di 21mila) e la limitata presenza di redditi medio-alti e alti fa sì che, inevitabilmente, un onere improprio venga caricato su redditi medi e medio-bassi (in particolare, i contribuenti tra i 28 e i 55 mila euro), che vedono al contempo il massimo balzo di aliquota legale (+11 punti) e la massima riduzione sul totale delle detrazioni (-28 punti) (grafico 6):Un ruolo centrale nella definizione del grado di progressività è infatti giocato dalle detrazioni, fruite per l’80 per cento dai contribuenti con redditi inferiori a 29mila euro. I primi due scaglioni di imposta sono così caratterizzati da aliquote più basse e da detrazioni più elevate, una combinazione che riduce al 5,2 e al 14,4 per cento le corrispondenti aliquote medie.Nel Rapporto si mette in evidenza come, se è vero che l’operare di tali meccanismi all’interno degli scaglioni rende più ripida la curva della progressività, esso non consenta un trasferimento netto di ricchezza, fatta eccezione per il primo decile di reddito. Tale sistema appare, inoltre, il risultato non di una strategia organica, ma di una stratificazione di interventi spesso tra loro disomogenei che, in alcuni casi, finiscono proprio per penalizzare le fasce di reddito più basse in quanto ricadenti nella no tax area, come ad esempio il bonus da 80 euro o le detrazioni Irpef per carichi familiari.La mancanza di redditi alti a cui chiedere un maggior contributo a fini redistributivi e i limiti endogeni ed esogeni alla manovra verso l’alto delle aliquote spingono a rimettere in discussione la scelta di circoscrivere la base imponibile della progressività ai soli redditi da lavoro e portano a ritenere auspicabile una riforma strutturale del sistema, abbandonando la logica degli aggiustamenti al margine”.
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