In questo nuovo capitalismo che privatizza i profitti e socializza le perdite degli investitori, cosa resta della celebrata competizione darwiniana sui mercati?
È sostenibile un capitalismo che privatizza i profitti ma socializza le perdite? È razionale un sistema che a parole fa dell’assunzione dei rischi il suo principio guida ma poi, al primo segno di crisi, mette mano alle finanze pubbliche per tutelare gli investitori dalle conseguenze delle loro scommesse sbagliate?
Queste incresciose domande sono improvvisamente tornate d’attualità dopo le recenti crisi bancarie. Il problema nasce dai salvataggi messi in atto dalle autorità statunitensi ed europee a favore di depositanti e investitori coinvolti nelle crisi. Praticamente stanno salvaguardando quasi tutti, senza troppo riguardo ai profili di rischio delle loro posizioni. Così, a distanza di tre lustri dalla grande crisi finanziaria, a quanto pare stiamo ripiombando nel bengodi dell’azzardo morale, in quel nuovo regno dell’impunità capitalistica talvolta ironicamente definito “socialismo per soli ricchi”.
Tra gli aspetti ideologicamente più scomodi di questo regime è che esso effettua salvataggi in modi discriminanti. Banche centrali e governi si sbarazzano dei meccanismi di selezione capitalistica basati sul libero gioco del mercato per sostituirli con criteri di regolazione politica in senso stretto, in apparenza neutrali ma a ben vedere discrezionali. Le autorità decidono di volta in volta quali titoli comprare e quali no, chi salvare dal fallimento e chi no, quali fusioni e acquisizioni favorire e quali no, e così regolano le bancarotte e i relativi processi di centralizzazione dei capitali. Un capitalismo che in un certo senso pianifica per salvarsi dalla sua stessa anarchia, potremmo dire. [...]
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