Licenziamento illegittimo: al dipendente spetta il risarcimento o il reintegro?

Simone Micocci

27 Aprile 2018 - 10:39

Il dipendente può impugnare il licenziamento ingiustificato davanti al giudice; sarà quest’ultimo - a seconda della situazione - stabilire se il lavoratore deve essere reintegrato oppure se ha diritto solamente ad un indennizzo.

Licenziamento illegittimo: al dipendente spetta il risarcimento o il reintegro?

Quali sono i diritti di un dipendente licenziato senza motivo?

Mentre il dipendente può mettere fine al rapporto di lavoro per qualsiasi motivo - presentando le dimissioni con il giusto preavviso - lo stesso non vale per il datore di lavoro.

La normativa vigente, infatti, stabilisce che il dipendente possa essere licenziato solamente in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. In mancanza di una valida giustificazione il licenziamento si considera illegittimo e il dipendente può quindi impugnarlo al fine di essere reintegrato o di ottenere un risarcimento.

È il giudice a decidere se il dipendente merita di essere riassunto oppure se questo ha diritto solamente ad un indennizzo. Tuttavia con la cancellazione dell’articolo 18 i casi in cui un lavoratore licenziato senza motivo viene reintegrato in azienda sono sempre meno, poiché spesso il giudice tende a preferire il solo risarcimento.

Molto comunque dipende dalle dimensioni dell’azienda; nelle imprese con molti dipendenti, infatti, essere reintegrati a lavoro è molto più frequente.

Ma quando si ha diritto al reintegro? Quando invece si riceve solamente un indennizzo a titolo di risarcimento? Prima di rispondere a queste domanda facciamo chiarezza su quando un licenziamento è illegittimo e quindi può essere impugnato dal dipendente.

Quando un licenziamento è illegittimo?

L’articolo 3 della legge 604/1966 prevede che l’azienda possa licenziare un dipendente per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

In questo caso si parla di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che avviene ad esempio quando un’azienda è in crisi oppure è costretta alla chiusura di un proprio settore operativo. Si ha licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche quando il lavoratore - per qualsiasi motivo - non può più ricoprire le mansioni che gli sono state affidate e non sia possibile un suo ricollocamento in altre mansioni compatibili con il suo livello di inquadramento.

Con la riforma del 2012 sono stati introdotte altre fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; ad esempio, l’azienda può licenziare un dipendente in malattia da troppo tempo, tale da aver superato il periodo di comporto. Inoltre è possibile la risoluzione del contratto per inidoneità psico-fisica del dipendente.

C’è poi il licenziamento come conseguenza di una violazione del codice comportamentale commessa dal dipendente. In questo caso si parla di giusta causa (quando la violazione è talmente grave da legittimare il licenziamento in tronco senza preavviso) o di giustificato motivo soggettivo.

Ne sono un esempio il mancato rispetto dell’obbligo di fedeltà da parte del dipendente, oppure la violazione dei doveri di diligenza, riservatezza e obbedienza.

Il dipendente può essere licenziato per giusta causa anche in caso di insubordinazione, assenza ingiustificata o abbandono del posto di lavoro.

Bisogna precisare però che nonostante il licenziamento sia determinato da un comportamento poco corretto del dipendente, quest’ultimo ha comunque diritto all’indennità di disoccupazione Naspi.

Visto quanto appena detto, possiamo concludere dicendo che il licenziamento è illegittimo ogni qual volta che non rientra in una delle fattispecie suddette. Se il licenziamento è ingiustificato il dipendente potrà opporsi alla decisione aziendale e rivendicare il suo diritto al reintegro sul posto di lavoro o all’indennizzo.

Quando spetta il reintegro?

Come anticipato, sono rari i casi in cui il giudice decide in favore del reintegro del dipendente licenziato senza un motivo valido.

In questa decisione gioca un ruolo fondamentale la dimensione dell’azienda coinvolta. Infatti per le imprese con pochi dipendenti il giudice tende a preferire il solo indennizzo, non optando quasi mai per il reintegro.

Gli unici casi in cui il reintegro è possibile a prescindere dalle dimensioni dell’azienda è quando il licenziamento avviene per motivi discriminatori, ad esempio per motivi afferenti al sesso, alla razza o alla religione. Ciò vale anche per la lavoratrice licenziata a causa della sua gravidanza.

Il reintegro, invece, è più frequente per le aziende numerose, ovvero per quelle con:

  • più di 15 dipendenti per unità produttiva;
  • più di 5 dipendenti per unità produttiva per le imprese agricole;
  • più di 60 dipendenti.

Per queste aziende il reintegro è possibile, ma solamente quando il licenziamento ha natura disciplinare e il fatto attribuito al dipendente è totalmente inesistente. Qualora invece il fatto contestato sussista ma non è tanto grave da giustificare il licenziamento, al dipendente spetta solamente il risarcimento.

Pensiamo ad esempio al dipendente in malattia che non rispetta l’obbligo di reperibilità negli orari delle visite fiscali; in tal caso la normativa prevede una sanzione pari alla decurtazione del 100% dello stipendio per i primi 10 giorni di malattia e del 50% per il periodo successivo.

Qualora l’azienda decidesse che la decurtazione dello stipendio non è abbastanza interrompendo il rapporto di lavoro sarebbe colpevole di licenziamento illegittimo, dal momento che il fatto contestato non è abbastanza grave da giustificare la risoluzione del contratto.

Tuttavia la violazione è stata effettivamente commessa quindi il dipendente non verrà reintegrato ma otterrà solamente un indennizzo a titolo di risarcimento.

Se invece nel corso del processo si accerta che il dipendente aveva comunicato preventivamente di non poter rispettare l’obbligo di reperibilità - presentando una motivazione valida - allora la violazione si considera come mai commessa; quindi oltre al risarcimento il lavoratore avrebbe diritto anche al reintegro.

Quando ha diritto (solamente) al risarcimento?

Quindi il licenziamento illegittimo dà luogo solamente ad un indennizzo quando:

  • la risoluzione del contratto viene decisa da un’azienda poco numerosa;
  • quando il fatto contestato dall’azienda si è realmente verificato, ma non è abbastanza grave da giustificare il licenziamento.

Il valore del risarcimento varia a seconda dei casi:

  • licenziamento motivato da un comportamento non abbastanza grave da giustificare l’interruzione del rapporto di lavoro: indennità pari a 2 mensilità (come riferimento si prende l’ultima retribuzione) per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 4 e non superiore alle 24 mensilità.
  • licenziamento totalmente ingiustificato: oltre al reintegro spetta un indennizzo pari all’ultima retribuzione moltiplicata per il numero di mesi trascorsi dal licenziamento all’effettivo rientro sul posto di lavoro (compreso il versamento dei contributi previdenziali). Da questa somma bisogna dedurre quanto il dipendente abbia eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto ricevere accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso l’indennizzo non può essere superiore al valore di 12 mensilità;
  • licenziamento ingiustificato per aziende poco numerose: indennizzo pari all’ultima retribuzione moltiplicata per gli anni di servizio. Il valore del risarcimento non può essere inferiore a quello di 2 mensilità, né superiore a 6.

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