Wall Street: nel 2018 eccesso di pessimismo sul mercato

Alessandro Venuti

15/02/2019

Il passo indietro della Fed, ora più accomodante, ha favorito lo slancio delle Borse. La normalizzazione delle politiche monetarie in atto richiede un adattamento continuo delle logiche di costruzione di un portafoglio. La view di Pictet Asset Management

Wall Street: nel 2018 eccesso di pessimismo sul mercato

Il dietro-front da parte della Federal Reserve sul percorso di rialzo tassi nel 2019 è stata la scintilla che ha scatenato il «rally di inizio anno».

Sembra che la Banche centrali, BCE inclusa, ora siano più consapevoli che i rischi al ribasso sono notevoli e per questo i governatori stanno adottando toni più accomodanti.

Ciononostante, molte delle criticità che hanno contribuito al ribasso di fine 2018 rimangono ancora irrisolte e molti investitori pensano che il rimbalzo che sta caratterizzando questa prima parte dell’anno possa essere solo temporaneo. Ne abbiamo parlato con Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet Asset Management Italia.

Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet Asset Management Italia

Dott. Delitala, c’è stato un eccesso di pessimismo nel 2018?

La visione sui vari elementi che hanno rappresentato i timori del mercato è più costruttiva rispetto al consensus: dalla guerra commerciale al rischio di recessione, dagli errori di comunicazione della Fed, che sono stati corretti completamente nel corso della riunione del FOMC del 30 gennaio. Ma anche l’hard Brexit e Italexit. Oggi siamo più propensi ad investire trovando nelle valutazioni una migliore remunerazione per il rischio rispetto a gran parte dell’anno passato.

I toni di Powell hanno condizionato pesantemente l’andamento dei mercati, quali sono i punti chiave che hanno ridato energia agli indici azionari?

Sicuramente il nuovo ritmo impresso alla politica monetaria da parte della Fed, incentrato sul concetto di “pazienza”. Questo comportamento ha ridato slancio ai mercati, dopo un 2018 che sarà archiviato come uno dei peggiori anni della storia recente in termini di performance. Peggiore anche rispetto al 2008, in cui almeno i bond core avevano offerto protezione. Jerome Powell ha definitivamente corretto il tiro sulla politica monetaria nella riunione del 30 gennaio, in cui la Fed ha deciso di lasciare i tassi invariati al 2,25%-2,5%. Ma, soprattutto, ha ribadito che potrebbe modificare la manovra di ridimensionamento del Balance Sheet in caso di necessità. Messaggi che hanno rassicurato i mercati, le cui dinamiche negli ultimi mesi del 2018 erano state condizionate pesantemente da due errori di comunicazione dello stesso Powell.

Parlando di asset class, secondo lei quale bisogna privilegiare nel 2019?

A fine 2018 le aspettative di inflazione sono rientrate in maniera clamorosa e drammatica a causa del rischio di recessione che il mercato ha incorporato in maniera esagerata. Guardando avanti, ci aspettiamo stabilità nei tassi reali, una coda inflazionistica tipica di fine ciclo, e quindi un rialzo contenuto dei tassi nominali. Nel caso in cui questo rialzo riguardasse la componente delle aspettative di inflazione, sarebbe il meno dannoso per gli asset rischiosi. Quindi sulla parte obbligazionaria il valore non c’è ancora: siamo tornati al 2,75% e non c’è motivo di investire nei nominali. Meglio rivolgere l’attenzione ai bond indicizzati all’inflazione, la cui quota abbiamo incrementato tra dicembre e gennaio.

Quale è stato l’impatto del Quantitative Tightening sugli asset più rischiosi?

La riduzione della liquidità che la Fed sta realizzando ha avuto un impatto importante su questo tipo di asset in termini di contrazione dei multipli. Riteniamo di avere davanti a noi ancora almeno sei mesi in cui l’azione della Banca centrale certamente alimenterà un vento contrario alla liquidità, pur nell’attesa di una correzione del ritmo di drenaggio. La protezione già eretta dal mercato, tuttavia, rende plausibile una stabilità nel rapporto P/E. Gli utili attesi sono stati alla base della correzione di fine 2018, generata da timori eccessivi di recessione: la traiettoria di crescita degli utili negli Usa è stata rivista già notevolmente al ribasso, dall’11% a 7%; è possibile che la riduzione delle stime prosegua fino a una previsione di crescita pari a zero nel 2019.

E sulla correlazione tra azioni e obbligazioni?

In occasione sia del Quantitative Easing che del Quantitative Tightening, provocato da Bernanke nel maggio 2013, la correlazione tra azioni e obbligazioni US mostra shock evidenti. Questo fatto rende impossibile proteggere il portafoglio attraverso l’utilizzo delle obbligazioni. La normalizzazione delle politiche monetarie in atto richiede che la costruzione di un portafoglio non possa basarsi sui paradigmi tradizionali, ma che sia soggetta ad adattamenti continui, frutto dello studio dei nuovi regimi di correlazione: ci muoviamo in un mondo diverso, caratterizzato da un nuovo regime.

Secondo lei come si evolverà la politica di riduzione del bilancio? Potranno esserci alcune revisioni delle guidance?

Stimiamo che entro marzo la Banca Centrale Usa potrebbe comunicare ulteriori dettagli della politica di riduzione del bilancio, o meglio, una revisione delle guidance sul bilancio. Nell’ipotesi che il punto di arrivo del bilancio Fed fosse fissato a 3.500 miliardi di euro, 400 in meno degli attuali, entro fine 2019 si raggiungerebbe il traguardo, oppure ad inizio 2020 se si rallentasse il ritmo del Quantitative Tightening, e la pressione sulle valutazioni si attenuerebbe, con la possibilità di performance azionarie pur sempre ad una cifra, data anche l’attesa continuazione della contrazione degli utili, ma più verosimilmente positive.

E in Europa, qual è la vostra view?

In Europa ci attendiamo che i danni siano più contenuti, anche perché il Vecchio Continente non ha sperimentato tutta l’euforia precedente che ha caratterizzato l’andamento dei mercati americani. Continuo ad aspettarmi che i tassi procedano sul sentiero della stabilizzazione, con quelli Usa a lungo termine previsti fra 2,75% e 3% per fine anno. In questo scenario, riteniamo verosimile un premio di rischio vicino a 3,5%. Questo ci porta ad individuare un rapporto Prezzo/Utili di circa 15,5-16 per l’Indice S&P 500, non molto al di sopra del valore corrente. Dunque, pur sposando una visione tutt’altro che pessimista sull’economia, non intravediamo forti rally degli indici azionari: i ritorni dovrebbero mantenersi su livelli contenuti, rigorosamente a una cifra, il che richiederà scelte tattiche.

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