In alcuni casi la Naspi spetta anche in seguito a dimissioni. Ma attenzione a non approfittarne.
La perdita involontaria del lavoro è un requisito fondamentale ai fini della richiesta di indennità di disoccupazione Naspi. Per questo motivo l’accesso alla prestazione è precluso nel caso in cui sia il lavoratore a rassegnare le dimissioni, salvo alcune eccezioni.
In questo modo il legislatore ha voluto evitare che quanti più lavoratori fossero incentivati a dimettersi dal lavoro perché attratti dalla possibilità di ricevere la Naspi per un periodo fino a 2 anni.
Tuttavia, nonostante questa preclusione, prendere la Naspi a seguito di dimissioni è comunque possibile. Ci sono circostanze, infatti, in cui le dimissioni del lavoratore sono equiparate al licenziamento, dando quindi pari diritto alla Naspi.
Senza dimenticare poi nonostante la disoccupazione non spetti a seguito di dimissioni non vieta la possibilità di percepirla in un momento successivo, godendo anche di quella non goduta.
Una possibilità che purtroppo viene ancora sfruttata per aggirare il suddetto divieto, come vedremo di seguito. Prima di tutto però concentriamoci sulle circostanze legali che consentono di accedere alla Naspi anche a seguito di dimissioni.
Naspi e dimissioni per giusta causa
Oggi, a tutti gli effetti, le dimissioni presentate per giusta causa non fanno perdere il diritto alla Naspi. Eppure non è sempre stato così; per diverso tempo si è discusso riguardo alla volontarietà delle dimissioni per giusta causa.
È vero, infatti, che anche in questo caso è comunque il lavoratore dipendente a rassegnare le dimissioni, condizione che sembrerebbe escludere la possibilità del riconoscimento dell’indennità di disoccupazione, ma lo è altrettanto il fatto che senza il comportamento lesivo messo in atto dal datore di lavoro questo non avrebbe avuto alcun motivo per interrompere anticipatamente il rapporto lavorativo.
Per questi, quindi, la Naspi rappresenta più una tutela che un “incentivo”.
Un principio che l’Inps ha messo nero su bianco con la circolare 163 pubblicata il 20 ottobre 2003, dove si legge che “qualora le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore ma siano indotte da comportamenti altrui che implicano la condizione d’improseguibilità del rapporto di lavoro”, allora si ha comunque diritto all’indennità di disoccupazione.
Ma attenzione, non basta che sussista la giusta causa per far sì che anche le dimissioni presentate siano riconosciute come tali. È richiesta, infatti, un’apposita procedura senza la quale non sarà comunque possibile richiedere l’indennità di disoccupazione. Al momento dell’invio della domanda telematica su ClicLavoro, infatti, bisogna barrare l’apposita voce “dimissioni per giusta causa”.
Naspi e dimissioni volontarie per maternità
Sono a tutti gli effetti delle dimissioni volontarie, invece, quelle rassegnate durante il periodo di maternità. Come tale si intende quello che va dal 300° giorno precedente alla data presunta del parto al compimento del 1° anno di vita del bambino.
Pur essendo tali il legislatore ha comunque riconosciuto il diritto alla Naspi a queste lavoratrici. Una tutela per coloro che decidono di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alla cura del proprio figlio, riconoscendo comunque loro il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione per i periodi lavorativi avuti negli ultimi quattro anni (purché non abbiano già dato luogo alla Naspi).
Anche in questo caso c’è una procedura particolare per presentare le dimissioni e non perdere il diritto alla disoccupazione. È necessario, infatti, presentare richiesta direttamente all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (senza utilizzare la procedura telematica per le dimissioni online).
leggi anche
Dimissioni in maternità: cosa serve sapere su procedura, preavviso e diritto alla disoccupazione
Ma attenzione, queste regole non si applicano solamente nei confronti della lavoratrice madre. Come confermato dall’Inps con la circolare n. 32 del 20 marzo 2023, quanto detto sopra vale anche per il lavoratore padre.
Anche questo, quindi, mantiene il diritto alla Naspi laddove decida di interrompere volontariamente il rapporto di lavoro entro il compimento del primo anno di età del figlio.
Naspi e risoluzione consensuale
Spetta comunque l’indennità di disoccupazione quando c’è sia la volontà del dipendente a non continuare il rapporto di lavoro che quella del datore di lavoro.
Nel dettaglio, ci riferiamo a due situazioni che danno luogo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro:
- la prima, è quella in cui la risoluzione avviene nell’ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro come disposto dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e come sostituito dall’articolo 1, comma 40, legge 92/2012;
- la seconda è il caso in cui la risoluzione sia consensuale in quanto il lavoratore dipendente si rifiuta di trasferirsi presso un’altra sede dell’azienda, purché questa sita a più di 50 chilometri di distanza dalla residenza del lavoratore (o raggiungibile comunque con più di 80 minuti con i mezzi pubblici).
Le dimissioni durante il periodo di prova danno diritto alla Naspi?
Caso particolare è rappresentato dalle dimissioni durante il periodo di prova. In tale periodo, infatti, il dipendente è legittimato a interrompere il rapporto di lavoro senza rispettare il periodo di preavviso. Inoltre, le dimissioni durante il periodo di prova non devono essere segnalate ai fini del reddito di cittadinanza.
Due tutele che potrebbero far pensare, vista la particolarità delle dimissioni durante il periodo di prova, che queste facciano mantenere anche il diritto alla Naspi. Ebbene, non è così: ai fini dell’indennità di disoccupazione, dunque, lasciare il lavoro nel periodo di prova viene considerato al pari di qualsiasi altra dimissione volontaria, e dunque non c’è possibilità di fare domanda di Naspi.
Come godere della Naspi non goduta
Salvo le suddette circostanze, quindi, non spetta la disoccupazione al lavoratore che si dimette. Tuttavia, il periodo maturato non viene perso, in quanto se ne può godere successivamente in caso di interruzione - questa volta per cause non dipendenti dalla propria volontà - di un secondo rapporto di lavoro.
Facciamo un esempio: Tizio ha lavorato per l’azienda Alfa da gennaio a dicembre 2023, salvo poi rassegnare le dimissioni e “rinunciare” così a 6 mesi di disoccupazione (la Naspi spetta per la metà delle settimane contributive maturate negli ultimi 4 anni). Tuttavia, già a gennaio 2024 inizia un’esperienza lavorativa per l’azienda Beta, che tuttavia si interrompe a marzo 2024 per la scadenza del contratto a tempo determinato.
In tal caso sussiste la perdita involontaria del rapporto e per questo si può fare domanda di Naspi che spetterà anche per il periodo lavorato presso l’azienda Alfa in quanto non ha dato luogo a disoccupazione. Ciò significa che spetterà per 7 mesi e mezzo anziché per il mese e mezzo “maturato” nell’azienda Alfa.
Come spesso accade però, “fatta la legge trovato l’inganno”: ci sono lavoratori infatti che a seguito di dimissioni dopo un lungo periodo lavorato si fanno assumere appositamente per pochi mesi (o alcune settimane) da un’altra azienda così da poter in seguito beneficiare della Naspi per la metà del periodo lavorato nell’arco dei 4 anni precedenti.
È bene sottolineare tuttavia che un’assunzione fittizia comporta dei rischi: si configura infatti come truffa ai danni dello Stato e come tale viene sanzionata. C’è quindi un rischio di reclusione, come pure una sanzione fino a 1.549 euro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA