L’indice di contagio R(t) è una spia dell’andamento dell’epidemia in Italia, ma secondo alcuni esperti non sarebbe un dato affidabile. Vediamo perché.
Diversi esperti in questi giorni stanno sottolineando la poca affidabilità dell’indice di contagio R(t), utilizzato per monitorare l’andamento dell’epidemia di coronavirus nella Fase 2.
Il tasso che in alcuni casi è tornato a salire dopo le riaperture, come successo a Milano, non sarebbe affatto indicativo e soprattutto non dovrebbe rappresentare un parametro per la riapertura dei confini tra regioni dal 3 giugno.
Cerchiamo di capire perché.
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Indice di contagio: cosa cambia tra R(0) e R(t)
In questi mesi abbiamo spesso sentito parlare di indice di contagio. Inizialmente le autorità sanitarie parlavano solamente di R(0) per poi passare alla denominazione R(t) nella Fase 2. Questo perché in realtà i due tassi si riferiscono a momenti distinti della diffusione del virus: il primo riguarda le fasi iniziali del contatto tra la popolazione e il patogeno, mentre il secondo rispecchia la contagiosità dello stesso a seguito dell’introduzione di misure restrittive.
Per questo la Fondazione GIMBE, che si occupa di ricerca in ambito sanitario, ha voluto operare un rigoroso distinguo tra i due, che sarebbero spesso confusi e utilizzati a sproposito dalle istituzioni. Anche il Ministero della Salute stesso lo ha fatto rientrare nei 21 indicatori per monitorare le zone a rischio in Italia e le Regioni avrebbero addirittura chiesto di ricalibrare le classifiche utilizzando l’R(0) invece che R(t), proposta quantomai incomprensibile.
Queste le parole del dottor Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione:
“Se la richiesta delle Regioni di abbandonare l’utilizzo dell’indice R(t) ha un senso risulta assolutamente incomprensibile quella di sostituirlo con il valore di R(0), visto che si tratta dello stesso indice in fasi diverse dell’epidemia, a dimostrazione che sul monitoraggio del contagio la confusione regna ancora sovrana”.
Perché l’indice di contagio è inaffidabile
L’indice R(t), come spiega la Fondazione GIMBE, è inversamente proporzionale all’aumento dei soggetti immuni e dei casi chiusi, ovvero chi è guarito o deceduto dopo aver contratto il coronavirus, e dipende fortemente dalle misure restrittive messe in campo. Ciò che rende il tasso fondamentalmente poco affidabile è la mancanza di una base di dati ampia a cui fare riferimento, senza contare che risente dei ritardi negli accertamenti virologici e della sottostima di vittime e guariti. Non solo, anche le modifiche sulle procedure e sui criteri di esecuzione di test e tamponi comportano una variazione sensibile.
Per non parlare poi del fatto che questo valore faccia riferimento solo a un terzo dei casi totali riportati dalla Protezione Civile, come confermato dall’Istituto Superiore di Sanità. Ecco cosa ne pensa Cartabellotta:
“Il dibattito politico e scientifico si sta concentrando su un indice molto variabile, condizionato dalla qualità dei dati, non tempestivo (l’ultima stima riflette ancora la fase di lockdown), calcolato su meno di un terzo dei casi confermati dalla Protezione Civile e influenzato dalle notevoli differenze regionali nell’esecuzione di tamponi diagnostici. Il suo ruolo dovrebbe essere ridimensionato, evitando di utilizzarlo come parametro univoco e soprattutto per elaborare classifiche regionali".”
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