Nuova sentenza della Corte di Cassazione per chi lavora in divisa: secondo gli ermellini il “tempo tuta” va retribuito e considerato a tutti gli effetti come attività lavorativa. Ma ci sono delle eccezioni.
In alcuni casi il tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa o il camice va considerato a tutti gli effetti come orario di lavoro e per questa deve essere retribuito in busta paga.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza 9417/2018 in cui ha accolto la richiesta presentata da un inserviente di una mensa aziendale, secondo il quale il tempo impiegato per la vestizione debba essere compreso nell’orario di lavoro e come tale deve dare diritto alla retribuzione.
Del cosiddetto “tempo tuta”, ovvero del tempo impiegato per indossare la divisa e il camice se ne discute da diversi anni; tutti quei dipendenti che per lavorare indossano una divisa (pensate a Forze Armate, chef o infermieri), infatti, chiedono che il tempo necessario per farlo venga loro riconosciuto ai fini retributivi.
In diverse pronunce la Cassazione si è espressa in favore di queste categorie di dipendenti; ad esempio con la sentenza 2837/2014, la Suprema Corte ricordò che va “considerato come lavoro effettivo - (ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa) - il tempo utilizzato per mettersi la divisa”, per poi aggiungere che questo deve essere retribuito quando:
- è il datore di lavoro a stabilire luogo e tempo della vestizione;
- indossare la divisa è obbligatorio ai fini dell’espletamento della propria attività lavorativa.
Con la più recente sentenza 9417/2018 la Corte di Cassazione ha ribadito questo presupposto, stabilendo inoltre che per alcune professioni - quale ad esempio l’inserviente della mensa - il camice non si può indossare a casa per ragioni di igiene e per questo spetta all’azienda adibire uno spogliatoio dove permettere ai dipendenti di cambiarsi.
Spogliatoio che va considerato a tutti gli effetti come ambiente di lavoro ed è per questo che il tempo impiegato per cambiarsi va retribuito e compreso nell’orario di lavoro.
Quando è “orario di lavoro”?
Con la sopracitata sentenza gli ermellini hanno stabilito che per individuare un orario come di lavoro basta che in quel determinato periodo il dipendente sia a disposizione dell’azienda e nell’esercizio delle sue attività, come d’altronde descritto dall’articolo 1 (comma II e lettera A) del decreto legislativo n° 66/2003.
Quindi, dal momento che indossare la divisa è un’attività obbligatoria ai fini dello svolgimento di alcune attività professionali, il tempo necessario per il cambio va considerato come orario di lavoro e - indipendentemente da quanto stabilito dal CCNL di riferimento - va pagato.
Quando il tempo per la vestizione va pagato?
Quanto appena detto però non vale per tutte le categorie di lavoratori che indossano un camice o una divisa, ma solamente per coloro che per motivi igienici sanitari non possono vestirsi prima di andare a lavoro.
Pensiamo ad esempio agli infermieri che non possono certamente recarsi a lavoro con il camice, o anche a chi lavora in ambienti come la cucina di un ristorante dove la pulizia è d’obbligo.
A tal proposito con il recente rinnovo del contratto per il comparto Sanità sono stati riconosciuti a medici e infermieri 10 minuti in entrata e in uscita per il cambio divisa, segno che quanto stabilito dalla Cassazione sta avendo dei risvolti anche sul piano pratico.
Un altro caso in cui il tempo tuta va retribuito è quello per cui è il datore di lavoro a stabilire i tempi e le modalità con cui questo deve avvenire. Pensate ad esempio a quelle aziende che chiedono ai propri dipendenti di indossare una divisa sul posto di lavoro e di cambiarsi prima di tornare a casa; anche in questo caso quindi il tempo tuta va assolutamente pagato.
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