Ecco come incide la convivenza prematrimoniale sull’assegno di divorzio alla luce della recente sentenza della Corte di Cassazione.
In Italia la legge sul divorzio risale al 1970 e, salvo alcune modifiche sulle modalità e le tempistiche, è ancora pressoché identica. Si parla della stessa legge che ha istituito per la prima volta lo scioglimento del matrimonio, che ovviamente non è propriamente al passo con i tempi. La convivenza prematrimoniale era quasi insussistente, mentre ad oggi è sempre più frequente.
Anzi, non è raro che la convivenza sia più lunga del matrimonio stesso quando i coniugi decidono di separarsi. Ciò rappresenta un problema per la determinazione dell’assegno divorzile, che non tiene conto soltanto degli aspetti patrimoniali, ma anche del contributo dato alla vita familiare – in termini patrimoniali e non patrimoniali – e tenendo conto delle ripercussioni sulla vita lavorativa.
Non calcolare la convivenza prematrimoniale può determinare una valutazione completamente diversa, ma grazie a una recente sentenza della Cassazione l’orientamento dei giudici potrebbe cambiare. Si conferma, infatti, l’importanza di valutare le scelte compiute dalla coppia prima del «sì». Ovviamente il responso cambia a seconda delle caratteristiche specifiche di ogni caso, ma la rivalutazione della convivenza è una vera e propria “rivoluzione di giustizia”, come definita dall’avvocato Gian Ettore Gassani (presidente di Ami).
La sentenza della Cassazione colma una lacuna legislativa importante, permettendo ora di valutare come incide la convivenza prematrimoniale sull’assegno di divorzio.
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Cassazione, la convivenza prematrimoniale incide sull’assegno divorzile
La storica sentenza a cui si fa riferimento è la n. 35385 del 18 dicembre 2023, che ha a oggetto appunto un divorzio e la conseguente determinazione dell’assegno. Protagonisti della vicenda due coniugi divorziati, che hanno convissuto per 7 anni e avuto un figlio prima di sposarsi, rimanendo poi sposati per altri 7 anni.
La Corte d’appello di Bologna aveva stabilito – nel 2020 – una riduzione dell’assegno divorzile riconosciuto dal tribunale ordinario in favore dell’ex moglie, adducendo che la sua rinuncia al lavoro era avvenuta prima del vincolo coniugale e dunque non motivata dagli obblighi matrimoniali.
La Corte di Cassazione ha invece cambiato la decisione, considerando che ormai la convivenza stabile è un’abitudine radicata, percepita senza perplessità al pari del matrimonio. Di conseguenza, ha considerato opportuno valutare anche il periodo di convivenza prematrimoniale e i patti tra coniugi che hanno poi definito l’equilibrio della coppia.
Dunque, anche gli anni di convivenza devono essere presi in considerazione nella valutazione dell’assegno divorzile, tenendo conto delle scelte comuni che hanno strutturato una ripartizione dei compiti tra coniugi e rinunce professionali.
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Come incide la convivenza prematrimoniale sull’assegno di divorzio
L’assegno di divorzio, ricorda la Cassazione, non ha solo natura assistenziale (volta a supportare l’ex coniuge non in grado di provvedere alle sue esigenze e incolpevole) ma anche perequativo-compensativa. Il coniuge che ha rinunciato a lavorare per dedicarsi alla famiglia in comune accordo con l’altro non solo non ha possibilità di mantenersi nell’immediato, ma ha anche sacrificato indelebilmente le proprie aspettative professionali.
In tal proposito, la Cassazione ritiene corretto considerare la convivenza prematrimoniale “stabile e duratura” in merito ai patti in comune accordo tra i coniugi che hanno portato sacrifici o rinunce nella vita professionale, tali da impedire all’ex coniuge di provvedere al proprio mantenimento efficacemente dopo il divorzio.
Di conseguenza, la convivenza prematrimoniale non è sempre considerata nella determinazione di un assegno divorzile, ma soltanto quando ha contribuito al consolidamento dei ruoli familiari e i relativi disequilibri economico-lavorativi. Ovviamente, il nesso causale tra il progetto comune dei coniugi e la rinuncia professionale deve essere debitamente accertato.
In particolare, la Corte ha considerato che i sacrifici reciproci dei coniugi non dipendono dal vincolo coniugale, bensì dalla “configurabilità della vita familiare” tutelata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo come diritto insindacabile di ogni cittadino, indipendente dal legame matrimoniale.
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