Decreto ingiuntivo su rate del finanziamento: quando è possibile opporsi

Marco Montanari

07/02/2022

Decreto ingiuntivo su rate del finanziamento arretrate: è possibile opporsi alla richiesta della banca? Vediamo quando, come funziona la procedura e alcuni dei principali motivi di opposizione.

Decreto ingiuntivo su rate del finanziamento: quando è possibile opporsi

La banca notifica un decreto ingiuntivo chiedendo il pagamento di alcune rate scadute di un finanziamento: potremmo essere nel torto e dover, di conseguenza, pagare l’intero importo, ma, fortunatamente, non sempre è così.

La nota situazione di crisi economica costringe molti a ricorrere all’indebitamento con banche o società finanziarie per far fronte ad esigenze di vita sempre più gravose.

Può anche sorgere la necessità di ricorrere a un mutuo per l’acquisto di un’abitazione o di altro immobile, o di accedere a un finanziamento per eseguire lavori di ristrutturazione su un immobile di proprietà.

Tuttavia, un debito che inizialmente appariva sostenibile può, nel corso del tempo, diventare eccessivamente gravoso, tanto da costringere il debitore a interrompere il pagamento delle rate del finanziamento.

Con il tempo, può capitare che la situazione sfugga di mano e che il debitore si trovi a ricevere un decreto ingiuntivo emesso da un giudice per il pagamento delle rate del finanziamento arretrate.

Vediamo nel dettaglio che iniziative prende, in questi casi, l’istituto di credito nei confronti del debitore e quali possibilità di difesa esistono nel caso più diffuso: il decreto ingiuntivo sulle rate del finanziamento arretrate.

La richiesta di restituzione immediata

Prima ancora di prendere qualsiasi tipo di iniziativa legale, normalmente la banca (o l’intermediario finanziario) invia, presso la residenza o il domicilio del debitore, un’intimazione di pagamento tramite posta raccomandata a/r, con la quale sollecita il pagamento delle rate che risultano scadute e non ancora pagate.

Nella prassi, in caso di inerzia del debitore e, quindi, di aggravamento del debito, la banca invia una comunicazione di “decadenza del debitore dal beneficio del termine”.

Con tale strumento l’istituto di credito persegue la finalità di informare il debitore che, a causa del mancato pagamento di diverse rate del finanziamento, il contratto si considera risolto (quindi, cessato) ed egli è tenuto a restituire il dovuto entro un breve termine e in un’unica soluzione.

L’ipotesi ricorre frequentemente nel caso di mancato pagamento delle rate di un mutuo.

In particolare, in base all’art. 1186 del Codice civile:

Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse.

Nella sostanza, la decadenza dal beneficio del termine consiste in una dichiarazione con la quale si avvisa il debitore del mancato pagamento di diverse rate e si intima allo stesso di restituire immediatamente, in un’unica soluzione, l’intero importo finanziato oltre agli interessi fino a quel momento maturati.

In base al citato articolo 1186, esiste la possibilità di inviare questa dichiarazione se ricorre una delle seguenti ipotesi:

  • stato di insolvenza del debitore;
  • diminuzione, per fatto imputabile al debitore, delle garanzie fornite per ottenere il prestito (fideiussione, pegno o ipoteca);
  • mancata prestazione delle garanzie promesse.

Con lo stesso atto, inoltre, la banca dichiara immediatamente risolto il contratto: da questo momento in avanti, il contratto non avrà più efficacia con conseguente impossibilità di godere del beneficio di restituire il prestito tramite pagamento rateale.

In questa fase è possibile prendere contatti con l’istituto di credito per proporre un piano di rientro alternativo o, se si hanno validi motivi di contestazione, rappresentarli all’istituto stesso per ottenere, in via “amichevole”, il ripristino del beneficio del termine e la prosecuzione del piano di pagamento rateale.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, non è facile trovare una soluzione che scongiuri l’avvio di un procedimento giudiziario.

Il decreto ingiuntivo

Abbiamo finora parlato della richiesta di pagamento immediato e della decadenza dal beneficio del termine.

Si tratta di atti stragiudiziali, che precedono, quindi, la fase giudiziale vera e propria, normalmente avviata dalla banca con il ricorso per decreto ingiuntivo (artt. 633 e ss., c.p.c.).

In concreto, con tale strumento la banca si rivolge al giudice rappresentando l’esistenza di un credito di importo determinato e richiedendo l’emissione di un decreto ingiuntivo, ossia di un provvedimento con il quale si ingiunge al debitore il pagamento della somma richiesta entro il termine di quaranta giorni.

È un tipico procedimento sommario, che non implica, cioè, la presenza della controparte (in questo caso, il debitore) e la possibilità, per quest’ultima, di contestare preventivamente la richiesta del creditore.

È bene precisare che, di norma, per le banche è molto semplice ottenere l’emissione di questo provvedimento: secondo l’art. 50 del T.U.B. (Testo Unico Bancario), è per loro sufficiente produrre in giudizio l’estratto conto, munito di certificazione di conformità alle scritture contabili, con il quale il dirigente della banca stessa dichiara che il credito è realmente esistente e il suo importo è correttamente determinato.

In altre parole, è la banca stessa a dichiarare l’esistenza e l’ammontare della somma richiesta tramite una sorta di autocertificazione che, tuttavia, avrà valore di prova soltanto finché non venga proposta opposizione da parte del debitore.

Successivamente, il provvedimento, insieme al ricorso con cui è stato richiesto, deve essere notificato dall’istituto di credito al debitore, che lo riceverà (normalmente, presso la residenza) nella tipica busta verde contenente gli atti giudiziari.

Da questo momento, sarà possibile per il debitore proporre opposizione al decreto ingiuntivo entro lo stesso termine di quaranta giorni previsto per il pagamento.

L’opposizione al decreto ingiuntivo

Avete appena ricevuto la busta verde contenente un decreto ingiuntivo (e il ricorso) notificato dalla banca: come si è visto, il debitore ha a disposizione quaranta giorni per proporre opposizione. Ma cosa comporta di fatto e quali sono i possibili motivi da far valere?

L’opposizione a decreto ingiuntivo (art. 645, c.p.c.) consente al debitore di contestare, in una fase successiva a quella di emissione del decreto, le ragioni che la banca ha posto a base della sua richiesta.

Essa si effettua con un atto di citazione, redatto dall’avvocato e notificato alla banca (tramite ufficiale giudiziario, posta raccomandata o p.e.c.) entro il citato termine di quaranta giorni, per poi essere successivamente presentato (tramite la cosiddetta «iscrizione a ruolo») allo stesso ufficio giudiziario che ha emesso il decreto ingiuntivo.

È importante sottolineare che, in caso di mancata opposizione entro il termine, il decreto ingiuntivo diventerà definitivamente esecutivo e non potrà più essere contestato dal debitore.
A questo punto, la banca potrà recuperare il proprio credito anche tramite esecuzione forzata.

Ma quali contestazioni si possono muovere con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo?

Vediamone alcuni esempi.

I principali motivi di opposizione

A seconda dei casi concreti, esistono diversi motivi da far valere con l’atto di opposizione.

Essi possono innanzitutto riguardare vizi formali o procedurali, attinenti, quindi, al decreto ingiuntivo in sé (ad esempio, per mancanza della sottoscrizione del giudice) o al ricorso in base al quale è stato ottenuto.

Inoltre, altri motivi possono riguardare la legittimità stessa della richiesta di pagamento presentata dalla banca.

Tra questi, rientrano i seguenti casi:

  • la prescrizione del credito;
  • la mancata o insufficiente dimostrazione della sua esistenza e del suo ammontare;
  • la nullità del contratto di finanziamento o di alcune delle sue clausole;
  • l’applicazione di tassi di interesse usurari.

1) La prescrizione del credito

La somma richiesta con il decreto ingiuntivo potrebbe essere, prima di tutto, prescritta.

Ciò significa che la banca non ha più diritto di esigere il pagamento del proprio credito.

Secondo l’art. 2934 del Codice civile, infatti, “Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”.

La prescrizione è, di regola, decennale; ciò implica che, se il titolare di un diritto non lo esercita per dieci anni, lo stesso si estingue e non potrà più essere fatto valere.

Secondo la Corte di Cassazione (Cass. n. 17798/2011), nell’ipotesi del mutuo bancario, in caso, quindi, di previsione di un piano di restituzione rateale (il cosiddetto «piano di ammortamento»), il diritto di credito si prescrive in dieci anni a partire dalla data di scadenza dell’ultima rata.

Dunque, è possibile che la banca abbia agito in ritardo, ad esempio, inviando la prima intimazione di pagamento oltre il termine di dieci anni dall’ultima scadenza, perdendo così il proprio diritto di credito e determinando, di conseguenza, l’illegittimità della sua pretesa.

2) Mancata o insufficiente dimostrazione del credito

Anche in materia di credito bancario, così come per ogni ipotesi di riscossione giudiziale del credito, vige la regola dell’onere della prova, in base alla quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento(art. 2697, c.c.).

Sulla base di tale regola, quindi, una volta proposta l’opposizione da parte del debitore, la banca sarà tenuta a dimostrare, in maniera piena e puntuale, l’esistenza e l’esatto ammontare del credito.

Nella pratica, ciò significa che la banca dovrà provare l’esistenza del contratto di mutuo e la correttezza degli importi indicati nel decreto ingiuntivo, distinguendo tra importi dovuti a titolo di capitale e di tassi di interesse per ogni rata del finanziamento.

Come anticipato, infatti, l’estratto conto certificato previsto dall’art. 50, T.U.B., utilizzato dalla banca per ottenere il decreto ingiuntivo, se contestato in giudizio tramite l’atto di opposizione, perde ogni valore di prova e l’istituto di credito dovrà dimostrare ogni elemento che rende la sua pretesa fondata.

3) Nullità del contratto o di alcune clausole

È anche possibile che il contratto di finanziamento preveda al suo interno delle clausole che lo rendono, in tutto o in parte, nullo.

Al riguardo, è importante sapere che l’art. 117 del T.U.B. dispone che i contratti bancari devono essere stipulati in forma scritta e una copia deve essere consegnata al cliente.

Nel caso in cui tale previsione non sia stata rispettata, il contratto si considera nullo.

Lo stesso articolo 117 prevede, inoltre, che debbano essere espressamente indicate, in forma scritta, le clausole che prevedono il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora (pagamento di una o più rate in ritardo).

Quindi il contratto di finanziamento deve indicare, pena la nullità delle sue clausole:

  • il tasso di interesse corrispettivo applicato;
  • il tasso di interesse moratorio (il tasso maggiorato, che viene applicato dalla banca in caso di ritardato pagamento di una rata);
  • ogni altro prezzo applicato all’operazione di credito (costi assicurativi, commissioni bancarie, ecc.).

È inoltre considerata nulla ogni clausola che, invece di indicare espressamente i costi del contratto, faccia generico rinvio agli usi oppure applichi costi e condizioni più svantaggiose per il cliente rispetto a quelle pubblicizzate dall’istituto di credito.

Nei casi appena elencati con l’opposizione sarà possibile richiedere al giudice di applicare le condizioni economiche di maggior favore previste dallo stesso articolo 117 del T.U.B., in base al quale:

  • il tasso di interesse è sostituito con il tasso dei buoni ordinari del tesoro (B.O.T.);
  • gli altri prezzi e condizioni si sostituiscono con quelli pubblicizzati; in mancanza di pubblicità nulla è dovuto.

Condizioni simili si applicano, poi, ai contratti di credito al consumo (prestiti destinati ai consumatori), nei quali la banca è tenuta a indicare, in modo chiaro, il T.A.E.G. (Tasso Annuo Effettivo Globale) del finanziamento, ovvero il costo totale del credito a carico del consumatore.

In caso di indicazione mancate o insufficiente, la legge stabilisce che il T.A.E.G. è sostituito con il tasso nominale minimo dei B.O.T.

Inoltre, in caso di totale assenza di informazioni relative a:

  • il tipo di contratto;
  • le parti del contratto;
  • l’importo totale del finanziamento e le condizioni di prelievo e di rimborso,

l’intero contratto si considera nullo e il consumatore dovrà restituire soltanto gli importi effettivamente utilizzati (esclusi, quindi, ulteriori costi e interessi).

4) Tasso di interesse usurario

Infine, uno dei motivi più ricorrenti di opposizione, riguarda la possibilità che il tasso di interesse applicato dalla banca sia di tipo usurario.

In particolare, può accadere che la banca abbia previsto, al momento della sottoscrizione del contratto, un tasso di interesse superiore alla soglia di usura in quel momento vigente.

È considerato usurario quell’interesse talmente elevato da superare il limite (soglia di usura) previsto dalla legge: si tratta, in altre parole, di un interesse illegale.

È bene sapere che l’usura è, prima di tutto, il reato previsto e punito dall’art. 644, c.p.

Essa si configura quando un soggetto (in questo caso, la banca) si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, come corrispettivo per una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi usurari, ossia interessi superiori al limite legale.

La Legge n. 108/1996 ha infatti previsto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), sentita la Banca d’Italia, stabilisca, con cadenza trimestrale, il tasso-soglia di usura di volta in volta vigente.

Se, ad esempio, al momento della sottoscrizione del contratto, il tasso previsto dall’istituto di credito superava il tasso soglia, con l’opposizione sarà possibile chiedere che il finanziamento venga dichiarato gratuito.

Il debitore, quindi, non solo dovrà restituire soltanto l’importo preso in prestito (capitale) senza gli interessi (art. 1815, c.c.), ma potrà anche pretendere la restituzione degli interessi usurari già pagati.

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