Dall’inizio del conflitto sono state molte le aziende che hanno smesso di operare in Russia, ma poche di queste sono italiane. Ecco quali aziende italiane sono ancora in attività in Russia.
In Russia le aziende straniere chiudono o vivono abbastanza a lungo da diventare russe. È il caso della Renault in Russia, che ha firmato gli accordi con il ministero russo dell’Industria e del Commercio per cedere a quest’ultimo il 100% delle azioni. Una scelta non unica e che segue diverse altre realtà straniere. In alternativa, le aziende continuano a operare in Russia, chi in forma ridotta, chi come se nulla fosse.
Secondo le indagini di Yale School of Management, l’Italia ha una quota piuttosto alta di aziende ancora operative in Russia. Tra i Paesi del G20 il nostro è uno dei più restii a recidere il legame commerciale con i “vicini”, per un valore percentuale pari a 71% e ci sono diverse realtà ancora in attività.
Vanno distinte le aziende che stanno cercando di diminuire il proprio impegno nel Paese, aziende che hanno messo gli investimenti in attesa e quelle che hanno iniziato il processo di chiusura. C’è anche chi è alla ricerca di un compratore, come nel caso della Renault e chi invece non ha intenzione di chiudere i propri affari con la Russia.
I rapporti delle aziende italiane con la Russia: il 71% è ancora in attività
Chiudere le proprie attività in Russia non è certo una decisione facile, ma dall’inizio del conflitto circa 80 giorni fa sono molte le aziende che hanno scelto questa strada. Le aziende italiane non brillano per iniziativa in questo senso, tanto che secondo le stime della Yale School of Management, tra i Paesi del G20, l’Italia ha all’attivo ancora il 70% circa delle aziende ubicate o legate commercialmente con la Russia.
Tra queste si distinguono le aziende ancora in funzione, con attività ridotte, investimenti in attesa o in fase di chiusura. Ecco una lista:
- Buzzi Unicem (in attività);
- Calzedonia (in attività, sospensione investimenti);
- Campari (in attività, ma ridotta al minimo);
- Cremonini Group (in attività);
- De Cecco (in attività);
- Delonghi (in attività);
- Geox (in attività);
- Intesa Sanpaolo (in attività, chiusura e ricerca acquirenti non sanzionati);
- Menarini Group (in attività);
- Unicredit (in attività, valutazione chiusura);
- Zegna group. (in attività);
- Barilla (sospensione investimenti);
- Maire Tecnimont (sospensione attività commerciali);
- Enel (ridimensionamento attività);
- Ferrero (ridimensionamento attività);
- Iveco (ridimensionamento attività, valutazione chiusura);
- Purelli (ridimensionamento attività);
- Stellantis (sospensione produzione).
La grande fuga dalla Russia sta rallentando?
Le prime aziende che hanno deciso le chiusure in Russia come ripercussione e pressione per il conflitto in Ucraina sono state un segnale. Un messaggio che non tutte le aziende, in particolare quelle italiane, hanno colto o potuto cogliere in tempo. Andrea Orcel, ad di Unicredit, ha spiegato in maniera limpida che l’uscita dalla Russia è complicata e non può essere fatta dall’oggi al domani per chi, come la banca italiana, ha all’attivo 72 sportelli nel Paese.
Per molte non si tratta di una questione morale quindi, quanto di vere e proprie difficoltà organizzative e di ristrutturazione del lavoro. Dopotutto la Russia accoglie il 2,4% dello stock italiano di capitali investiti e le aziende italiane (442) fatturavano un totale di 7,4 miliardi nel Paese, equivalente al 2,6% di quello prodotto nei Paesi extra Ue.
Un discorso universale e che vale anche per molte altre aziende nel mondo, come Nokia che ha annunciato il ritiro dal mercato russo il 12 aprile o Ericsson a seguire. Siemens annunciato l’avvio di un processo ordinato per la chiusura delle attività in Russia solo lo scorso 12 maggio 2022. L’azienda ha calcolato che l’impatto economico stimato sarà in negativo per un valore pari a -600 milioni di dollari in un trimestre.
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