Pechino minaccia le aziende metallurgiche sulle pratiche speculative: iron ore in picchiata e breakevens dei prezzi Usa in netto calo. E Wall Street plaude, proprio nel giorno in cui avanza nuovi sospetti verso il laboratorio di Wuhan. E’ la doppia morale dell’Occidente: il mondo del debito strutturale e del Qe perenne ha bisogno di deflazione. E solo i metodi dittatoriali che si condannano a parole, possono crearla ad hoc
Blame China or bless China? Quesito amletico. Perché nel giorno in cui il Wall Street Journal rilanciava documenti dei servizi di intelligence Usa riguardo il ricovero di tre ricercatori del laboratorio virologico di Wuhan settimane prima della versione ufficiale, spingendo addirittura il professor Anthony Fauci ad avanzare dubbi sull’origine naturale del virus, proprio Pechino garantiva al Nasdaq di respirare dopo settimane di pressione. E, soprattutto, spingeva al ribasso sotto quota 1,60% il rendimento del decennale statunitense.
Che fare, quindi? Maledire il Dragone per lo scoppio della pandemia, prendendo per buona l’ultima versione degli 007 o benedirne l’esistenza per il supporto implicito che garantisce ai mercati del nemico occidentale, quando tutto sembra precipitare? L’interrogativo è paradossalmente prima morale che politico. Perché la Cina può permettersi di operare in tal senso, proprio per la natura autoritaria del suo sistema di potere. La stessa che l’Occidente attacca e accusa con modalità a targhe alterne. A far garantire nuova linfa al comparto tech Usa è stata infatti l’ennesima minaccia diretta della National Development and Reform Commission alle aziende metallurgiche, un avviso finale di tolleranza zero rispetto a comportamenti monopolistici o speculativi che aumentassero le pressioni rialziste dei prezzi.
Detto fatto, in apertura settimanale di contrattazioni, i futures sul minerale di ferro (iron ore) con consegna a settembre hanno registrato un calo del 5,2%, tonfo che ha spinto la commodity addirittura in bear market sulla piazza di Dalian, avendo registrato un calo superiore al 20% solo dal 12 maggio scorso. E anche a Singapore, contratti in calo del 7,5% a 177,35 dollari per tonnellata. Insomma, Pechino sta affrontando di petto il rally delle materie prime, di fatto raffreddando e non poco le prospettive di inflazione a livello mondiale, come mostra questo grafico
Fonte: Bloomberg
relativo al calo registrato solamente la settimana scorsa nei breakevens del decennale Usa. C’è però un problema: se un governo occidentale minacciasse in quel modo un intero comparto produttivo, ancorché in base al buon fine di porre un freno alla speculazione, quanto tempo passerebbe prima che i partner ne chiedessero la sospensione dal WTO?
La Cina, invece, può. Proprio perché per l’Occidente è una dittatura. Utile, però. Anzi, esiziale. Lo mostra questo grafico,
Fonte: Société Générale
il quale mette in prospettiva la dinamica più importante sostanziatasi sul finire della scorsa settimana: con 2-3 mesi di anticipo rispetto ai cicli della serie storica, l’impulso creditizio cinese ha virato in negativo. Solitamente accade dopo 10 mesi dal picco, questa volta la cura COVID ne ha richiesti solo sette. E in cosa si sostanzi questa cura, è presto detto e plasticamente evidenziato da quest’altro grafico:
Fonte: Financial Times
da inizio anno al 30 aprile, le agenzie di rating cinesi hanno operato downgrades per un numero superiore al triplo dell’intero 2020. Di fatto, un vero e proprio rastrellamento di zombie firms.
A cui, nel frattempo, è seguito un taper reale - e non annunciato - dello stimolo messo in campo per contrastare la pandemia: ad aprile, i nuovi prestiti sono stati pari a 1.470 miliardi di yuan contro l’attesa di 1.600 e il total social financing, di fatto il supporto della Pboc all’economia tramite iniezioni di liquidità e interventi sui requisiti di riserva, è sceso a 1.850 miliardi contro le previsioni di 2.290 miliardi. Pechino sta stringendo i cordoni della borsa, a rischio di veder fallire sempre più imprese. E in vista di quanto mostrato da questo altro grafico:
Fonte: Bloomberg
da qui ai prossimi 12 mesi, le scadenze obbligazionarie su bond onshore cinesi sono pari a 1,3 trilioni di dollari, il 30% in più rispetto agli oneri debitori delle aziende Usa e il 63% di quelle europee. Decisamente più contenuto, invece, l’ammontare di riferimento delle maturities su bond offshore, pari a 167 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi.
Pechino scherza con il fuoco o sta dimostrando al mondo la sua reale potenza di player globale, tenendo in piedi l’intero baraccone? Al netto dell’accorciamento delle scadenze operato dalla gran parte delle aziende cinesi come reazione alla condizioni di mercato più provanti, come mostra il grafico,
Fonte: Bloomberg
ad oggi nessuno teme eventi di credito. Il mitologico Minsky moment non pare all’orizzonte, tantomeno l’hard landing. E la riprova è data da quanto sta avvenendo sul mercato repo interno cinese, dove il bond con scadenza 2023 del gigante dell’asset management Huarong Securities - caduta in disgrazia dopo il taglio del rating di Fitch, allarmata dal futuro di un outstanding obbligazionario di 18,5 miliardi di dollari - garantisce all’atto della presentazione come collaterale solo il 40% del face value in cash, a fronte del 91% solo dell’inizio di aprile.
Il tutto facendo riferimento a un soggetto vitale per il sistema bancario cinese, operante negli anni post-crash come bad bank statale e a controllo maggioritario del ministero delle Finanze. Reazione dei regolatori di fronte alla sfiducia del mercato? Nemmeno un plissé, ora l’obiettivo è sconfiggere l’inflazione. E questo grafico
Fonte: Refinitive/Reuters
mostra i risultati ottenuti in una sola settimana di minacce. Perché, piaccia o meno, sono due le fondamenta della cattiva coscienza occidentale verso la Cina. Primo, ne si condanna il regime ma si usufruisce dei suoi metodi spicci per compiere il lavoro sporco sul mercato. Come accaduto plasticamente ieri. Secondo, il mondo dell’indebitamento strutturale e del conseguente Qe perenne ha bisogno di deflazione. E solo la Cina può garantirne l’esportazione a secchiate. O la sua creazione ad hoc, come attraverso l’attuale crociata inquisitoria contro la speculazione sulle commodities o il taper dell’impulso creditizio che la Fed non si può permettere in maniera ordinaria.
Questo ultimo grafico
Fonte: Bloomberg
mette il tutto in prospettiva: ieri l’utilizzo della facility di reverse repo della Federal Reserve ha raggiunto quota 394,9 miliardi, il quinto livello più alto in assoluto e soprattutto il frutto di un aumento a livello settimanale di 186 miliardi, primato per un periodo non di fine trimestre o fine anno. Tradotto, le banche esplodono di riserve, il collaterale (Treasuries) che ottengono dalla Fed per parcheggiare cash comincia a scarseggiare: il Qe va verso il ciclico endgame. Cosa può riattivarlo, dopo una pausa da taper divenuta paradossalmente attesa, prezzata e benedetta da tutti e che veda operare con il pilota automatico un rally da ripresa e una nuova rotazione dentro il growth, beneficiario principale il Nasdaq?
Solo una nuova prospettiva di contrazione e deflazione. La stessa garantita, a detta di molti analisti e dai precedenti storici, dal passaggio in negativo dell’impulso creditizio cinese, ritardato di circa 9 mesi nei suoi effetti. Un tempo sufficiente al sistema Usa per riprendersi dall’indigestione in atto. Insomma, se vogliamo il Qe perenne dobbiamo convivere con i dittatori. E ora presunti untori.
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