A novembre gli eserciti di Algeri e Mosca daranno vita all’esercitazione anti-terrorismo Desert Shield. E mentre si scopre che Ryad ha scommesso su Gazprom e Lukoil prima della guerra, Berlino trema
A volte sono proprio certe uggiose domeniche agostane a regalare delle vere e proprie chicche. Rivelatrici. Ovviamente, tutte destinate a non fare notizia. Perché potrebbe apparire decisamente sconveniente notare alcune certe granitiche certezze regalate dal governo Draghi prima della crisi e dell’indizione di elezioni anticipate rischino di tramutarsi in materiale decisamente friabile.
Nella fattispecie e in primis, l’accordo con l’Algeria per l’aumento della fornitura di gas, l’atto finale del tour da globetrotter energetico del premier facente funzioni e quello prodromico all’affrancamento effettivo dalla dipendenza dal gas russo. Al netto dei quel 49% di Gazprom nel progetto con l’algerina Sonatrach per lo sfruttamento del giacimento di Al Assal a partire dal 2025, di fatto l’atto costitutivo dell’ampliamento del potere di ricatto russo anche a Spagna e Portogallo per le forniture di gas naturale, ecco che l’agenzia Tass rendeva noto come il prossimo novembre gli eserciti di Algeria e Russa daranno vita a esercitazioni anti-terrorismo congiunte nella provincia di Bechar.
Più precisamente, le manovre - denominate Desert Shield - si terranno nel campo di addestramento di Hammaguir e vedranno impegnati 80 uomini di unità mobili russe di stanza nel Nord del Caucaso e altrettanti omologhi algerini. Di fatto, il secondo atto dopo le esercitazioni congiunte in Nord Ossezia nell’ottobre del 2021 e finalizzate ad affinare le capacità di rintracciare, detenere ed eliminare gruppi terroristici. Insomma, il governo che dovrebbe garantirci la libertà dal gas russo, di fatto coopera proprio con la Russia nell’esiziale campo dell’anti-terrorismo.
Oltre ad avare interessi energetici con Gazprom che non si limitano alla mera e formale partnership in Sonatrach, come qualcuno continua a ripetere, equiparando l’influenza del colosso russo a quella di Eni. Conflitto di interessi? Sicuramente, una posizione molto simile a quella di chi tiene il piede in due scarpe. Come d’altronde pare aver fatto un altro attore di primo piano dell’universo energetico, quell’Arabia Saudita che ha appena festeggiato i risultati finanziari da record di Aramco e che ha vaticinato almeno un altro decennio di domanda record per il greggio, al netto di recessioni e agende green.
Il Financial Times, infatti, ha reso noto come la Kingdom Holding, una delle corazzate di investimento del Regno e controllata a maggioranza dal Principe Alwaleed bin Talal, ha infatti operato una scommessa da 500 milioni di dollari su aziende energetiche russe come Gazprom, Rosnet e Lukoil subito prima dello scoppio del conflitto in Ucraina. Per l’esattezza, 364 milioni su Gazprom in febbraio e il rimanente su Rosneft e Lukoil tra la fine di quel mese e l’inizio di marzo. Non stupisce, essendo Ryad di fatto alleato di ferro di Mosca nella cosiddetta Opec+.
Ma, formalmente, la stessa Arabia Saudita viene dipinta - esattamente come la Turchia che da Mosca si fa costruire le centrali nucleari e vendere i sistemi missilistici S-300 - come una quinta colonna occidentale in seno al mondo arabo ma anche al cartello dei produttori di petrolio, proprio al fine di arginare lo strapotere russo. Anche in questo caso, piede in due scarpe. Una delle quali appare però decisamente più comoda dell’altra, essendo direttamente legata a un argomento verso cui Ryad è da sempre molto sensibile: i petrodollari.
Insomma, attenzione a dare per scontate certe alleanze e certi accordi. Anche perché la situazione pare precipitare di ora in ora per l’Europa. O, almeno, per la sua ex locomotiva economica. Sempre il Financial Times, infatti, intervistava il capo dell’Agenzia federale di rete tedesca, Klaus Muller, a detta del quale la Germania rischia di dover ricorrere ai razionamenti quest’inverno, se non centrerà gli obiettivi di riduzione dei consumi di gas del 20%, Insomma, un quinto in meno. Sottolineando, inoltre, come c’è il rischio che alcune produzioni si spostino all’estero a causa del costo troppo alto del gas in Germania. Tradotto, delocalizzazione energetica. Quindi, contraccolpo occupazionale oltre a quello sul dato di crescita economica.
Il tutto alla luce di questo grafico,
dal quale si evince come il livello di 33 centimetri che nel 2018 impose la non navigabilità forzata alle tratte commerciali più strategiche del Reno sia ormai questione di giorni, Pochi, oltretutto, poiché le previsioni meteo aggiornate al 14 agosto non lasciavano speranze per precipitazioni in grado di bloccare quantomeno la continua diminuzione verso l’area del non ritorno. Sicuramente andrà tutto bene. Ma se le alternative a Mosca appaiono tutte afflitte da dubbi e necessitanti di tempi medio-lunghi per divenire realtà, il potere di ricatto monopolista russo assume ogni giorno un carattere sempre più stringente.
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