Buste paga, l’intervento diretto dello Stato potrebbe rappresentare un disincentivo agli aumenti contrattuali. Ecco qual è la soluzione per il lungo periodo.
I dati ci dicono che l’Italia è uno dei Paesi europei dove le retribuzioni faticano di più a crescere. Un problema che l’opposizione spera di risolvere con l’introduzione di un salario minimo, mentre il governo Meloni punta al potenziamento della contrattazione collettiva individuando una soglia minima per ogni settore al di sotto della quale nessun Ccnl potrà andare.
Per quanto riguarda il 2024, però, non vengono fatti passi avanti in tal senso con lo Stato che continuerà a farsi garante del potere d’acquisto degli italiani riducendo il cuneo fiscale attraverso due misure: lo sgravio contributivo e la riforma fiscale con la quale vengono riviste le aliquote Irpef. E per le sole mamme con almeno 2 figli si aggiunge la novità rappresentata dal nuovo sgravio contributivo fino a 3.000 euro l’anno.
Se lo stipendio sarà più alto nel 2023 rispetto al 2024 - e non è neppure detto che sia così - sarà quindi solamente per merito dello Stato visto che sulla contrattazione collettiva non è ancora arrivata quella spinta necessaria a favorire il rinnovo per quegli oltre 500 contratti che oggi risultano essere scaduti.
Quel che dobbiamo capire è cosa succederà una volta che lo Stato non potrà più permettersi di intervenire direttamente a sostegno dei redditi dei lavoratori, perché state pur certi che questo momento arriverà. Basti pensare che solamente per la conferma dello sgravio contributivo - che da solo garantisce un aumento di più di 1.000 euro l’anno al lavoratore - sono serviti circa 10 miliardi di euro nell’ultima legge di Bilancio 2024: siamo sicuri che il governo disporrà ogni anno di un tale tesoretto? Molto probabilmente no: per questo è impensabile che nel lungo periodo l’aliquota contributiva a carico del lavoratore resti pari a al 3,19% per i redditi fino a 35 mila euro (2,19% persino per quelli che non superano i 25 mila euro lordi).
In attesa che ciò avvenga bisognerà quindi pensare a un piano B (che poi di fatto dovrebbe rappresentare il piano A), assicurandosi che venuto meno lo Stato siano le aziende a farsi carico degli aumenti stipendiali equiparando le retribuzioni al costo della vita.
Stipendi, l’errore commesso dallo Stato
Come abbiamo avuto modo di spiegare (qui tutte le cifre) oggi grazie allo sgravio contributivo spetta un aumento di stipendio netto che può arrivare fino a 100 euro al mese.
Un aiuto notevole per il lavoratore ma che va detto che allo stesso tempo sta deresponsabilizzando le aziende: dal momento che è lo Stato a farsi carico dell’aumento del dipendente, infatti, viene meno l’urgenza per i datori di lavoro di procedere con l’equiparazione delle retribuzioni al costo della vita che alla luce dei dati sull’inflazione accertata in questi due anni sarebbe assolutamente necessaria.
Anzi, in alcuni casi il fatto che entro la soglia dei 35 mila euro ne risulta un aumento fino a 100 euro al mese potrebbe persino rappresentare un disincentivo all’aumento: come abbiamo avuto già modo di spiegare, infatti, c’è il rischio che laddove con l’aumento di stipendio dovesse risultare un incremento tale da comportare il superamento della suddetta soglia, lo stipendio netto risulterà persino più basso rispetto a quello precedente. Una situazione che purtroppo potrebbe verificarsi nel pubblico impiego, dove il rinnovo è già in programma (i primi dovrebbero essere i comparti Difesa e Sicurezza).
Il rischio quindi è di arrivare al giorno in cui il governo non potrà più permettersi un tale investimento per il sostegno del reddito dei lavoratori senza che sia pronto un piano B: ossia la maggior parte dei contratti collettivi rinnovati con stipendi lordi già adeguati al costo della vita. Se poi nel frattempo ci sarà anche il margine per continuare a ridurre il cuneo fiscale - ossia la differenza che c’è tra lo stipendio lordo e il netto - tanto meglio.
Quale soluzione per aumentare davvero gli stipendi?
Quel che serve è un piano per aumentare gli stipendi nel lungo periodo, dimenticando le misure estemporanee che non danno stabilità. D’altronde era stata la stessa Giorgia Meloni a dire “basta ai bonus”, che tuttavia in questa legislatura non mancano.
Ad esempio, una soluzione che sarebbe funzionale a questo scopo è quella che prevede una detassazione degli aumenti di stipendio, garantendo così la massima resa delle poche risorse generalmente a disposizione. È bene specificare, infatti, che non sono solamente i lavoratori ad aver pagato le conseguenze dell’inflazione, poiché anche le aziende in questi mesi hanno dovuto fare i conti con i maggiori costi di produzione dovuti al caro delle materie prime e dell’energia. Non si può quindi pretendere dalle aziende chissà che investimento: ed è qui che deve intervenire lo Stato assicurando il miglior risultato possibile con le poche risorse che verranno messe a disposizione.
Tant’è che i sindacati da tempo chiedono una misura che possa detassare gli aumenti stipendiali previsti dalla contrattazione collettiva: se ne era già parlato per la legge di Bilancio 2024 d’altronde, salvo poi doverla bocciare per mancanza di risorse.
Quel che è assolutamente indispensabile, specialmente superata questa situazione di emergenza che per forza di cose ha portato all’intervento diretto dello Stato, è arrivare a definire un meccanismo dove la contrattazione collettiva funzioni davvero come dovrebbe, senza dover aspettare anni per un rinnovo e con ogni lavoratore che potrà godere di un’adeguata tutela contrattuale con adeguamenti costanti al costo della vita.
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