Pubblicati i verbali relativi all’ultima riunione del FOMC, il braccio di politica monetaria della Fed, del 17-18 settembre. Attenti al dollaro.
Sono state appena pubblicate le minute della Fed, relative all’ultima riunione del FOMC, il braccio di politica monetaria della banca centrale americana: quella del 18 settembre scorso, che ha inaugurato ufficialmente l’inizio dell’allentamento della restrizione monetaria negli Stati Uniti.
Con la minaccia dell’impennata dell’inflazione rientrata, il mese scorso la Fed ha iniziato a tagliare i tassi sui fed funds: nessun indugio, tutt’altro, visto che a essere annunciata è stata subito una mega sforbiciata del costo del denaro Usa, pari a 50 punti base.
Dopo essere stati alzati negli ultimi due anni per ben (11 volte, dal marzo del 2022 al luglio del 2023), e dopo una pausa che è durata più di un anno, i tassi sono stati ridotti così al nuovo range, compreso tra il 4,75 e il 5% .
Verità inflazione nelle minute: la paura persiste
La cronaca di quella ultima riunione del FOMC si è fatta oggi più chiara, sulla scia della diffusione dei relativi verbali.
Nelle minute si legge che “ una maggioranza significativa ” degli esponenti della Commissione si è mostrata favorevole, lo scorso 18 settembre, a tagliare i tassi Usa di 50 punti base, grazie alla generale “ maggiore fiducia ” nella capacità dell’inflazione di scendere in modo sostenibile al target del 2% della Fed.
La banca centrale Usa ha parlato di “rischi per il raggiungimento degli obiettivi di occupazione e di inflazione in una situazione di equilibrio”, a fronte di un’attività economica che si sta espandendo a un “ritmo solido” e di una crescita dei nuovi posti di lavoro in rallentamento, accompagnata comunque da un tasso di disoccupazione che rimane basso.
Attenzione, però: nonostante “abbia fatto ulteriori progressi, l’inflazione rimane in qualche modo elevata”.
Inoltre, sebbene la “maggior parte dei partecipanti abbia rilevato rischi bilanciati per l’outlook sull’inflazione”, alcuni “ avrebbero preferito un taglio di 25 punti base, citando l’inflazione ancora alta e la crescita solida” dei fondamentali economici.
A dissentire è stata in particolare la governatrice Michelle Bowman, favorevole a una riduzione di 1/4 di punto percentuale a causa di una inflazione core rimasta, si legge nei verbali, ben al di sopra del target del 2%.
Gli esponenti del FOMC si sono trovati comunque concordi sulla necessità di “adottare una politica più neutrale, nel corso del tempo, nel caso di una evoluzione dei dati in linea con le attese”.
In definitiva, la Commissione “valuterà attentamente” gli indicatori macro per procedere ad aggiustamenti aggiuntivi ai tassi.
Prova di coraggio da Powell con il Jumbo Cut. Ma occhio al dollaro
Tornando a quel meeting del FOMC del 17-18 settembre, culminato in quello che è stato definito subito “Jumbo Cut”, la prova di coraggio data dalla Fed di Jerome Powell con il mega taglio di 50 punti base è stata tale da provocare subito una forte euforia tra i trader più dovish, che hanno visto in quella sforbiciata l’inizio di una nuova era fatta di tagli continui, magari ancora pari a mezzo punto percentuale.
A corroborare le speculazioni, all’inizio, è stato lo stesso dot plot che il FOMC ha pubblicato nell’ultimo meeting, da cui è emersa la prospettiva di almeno altre due sforbiciate dei tassi entro la fine del 2024, di altri quattro tagli nel 2025 e di due riduzioni nel 2026, fino a portare i tassi a scendere al 2,9%.
Quella euforia delle colombe, come ha dimostrato tuttavia il trend di Wall Street e dei titoli di stato Usa delle ultime sedute, non ha impiegato molto tempo a smorzarsi, sulla scia delle stesse parole proferite da Jerome Powell che, la scorsa settimana, hanno confermato che la banca centrale americana non ha alcuna fretta di tagliare ancora i tassi, nel corso delle prossime riunioni.
Powell ha fatto riferimento, infatti, a una fase di ulteriore “ricalibrazione”, che verrà portata avanti dalla Federal Reserve a seconda di quanto emergerà dai dati macroeconomici che verranno pubblicati nelle prossime sedute.
E certo non si può dire che i segnali che sono arrivati nelle ultime sessioni dal fronte degli Stati Uniti abbiano indicato un’economia in difficoltà tali da necessitare un salvagente sotto forma di tagli continui dei tassi.
Il messaggio è stato anzi diametralmente opposto, soprattutto se si considerano i numeri piombati a Wall Street con la pubblicazione dei Nonfarm Payrolls di venerdì scorso.
L’attenti è stato così lanciato in modo inequivocabile, nelle ultime sedute, dal trend del dollaro e dei rendimenti dei titoli di stato Usa, che hanno accusato il colpo dell’escalation delle tensioni geopolitiche e dello scatto dei prezzi del petrolio.
Il risultato è stato il forte rialzo, in particolare, dei rendimenti dei Treasury a 10 anni che, per la prima volta da agosto, sono tornati a superare la soglia del 4%.
Occhio anche al dollaro, che proprio nelle ultime ore è balzato al record degli ultimi due mesi, portando il rapporto EUR-USD a scendere fino a $1,0938 (pre-minute) e il rapporto USD-JPY a balzare di oltre lo 0,60% a quota JPY 149,10, record dal 16 agosto, in attesa di quello che si può definire il grande market mover della settimana, ovvero l’indice CPI Usa, tra i termometri più importanti per misurare il trend dell’inflazione, che sarà reso noto nella giornata di domani.
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