In attesa del dato CPI, il sondaggio della Fed di New York sembra confermare un trend fuori controllo. Ma i prezzi alla produzione di Pechino (+9,7%) uniti al rischio Covid appaiono il vero tail risk
Variante Delta a parte, tutti gli occhi del mercato sono puntati sulla pubblicazione del dato sull’inflazione Usa atteso per mercoledì. Di fatto, un falso problema. Quantomeno, a livello di diretta implicazione per la politica monetaria della Fed. Jerome Powell, in tempi non sospetti, ha infatti confermato di preferire il trend occupazionale come riferimento per adattamenti di policy rispetto a quello dei prezzi. Ma l’invito alla cautela che lo stesso numero uno ha espresso dopo la pubblicazione del dato record di luglio è parso a molti un mettere le mani avanti rispetto a possibili flessioni in vista dell’autunno, proprio in relazione ai nuovi contagi e possibili restrizioni.
Non a caso, l’orizzonte temporale per una riflessione di sistema sul taper è stato posticipato a dopo la pubblicazione delle prossime due letture, agosto e settembre. C’è però un problema: al netto di una Fed che ormai opera in base a un playbook totalmente sconnesso dai fondamentali, una fiammata dei prezzi ha immediate conseguenze sia sugli indici che sui consumi. E la giornata di oggi ha offerto uno spoiler decisamente allarmante, visto che l’ultimo sondaggio sull’inflazione della Fed di New York può essere sintetizzato con questi due grafici:
Fonte: Bloomberg/New York Fed
Fonte: New York Fed
se infatti l’aspettativa a tre anni è salita al 3,7% dal 3,5% precedente, dato più alto dall’agosto 2013, è la divergenza interna al corpo dei rispondenti a mettere sul tavolo un numero senza precedenti.
Circa il 25% degli interpellati alla domanda sul trend dei prezzi a 36 mesi, ha infatti ipotizzato un +8,0%, la lettura più alta in assoluto da quando viene tracciata la serie storica. Di fatto, il funerale della tesi riguardo la transitorietà dell’inflazione. Ma ecco che questi altri due grafici
Fonte: Deutsche Bank
Fonte: Piper Sandlers
aprono uno scenario paradossalmente ancora più inquietante, a livello prospettico. In entrambe i casi, sia per Deutsche Bank che per Piper Sandlers, l’inflazione negli Usa potrebbe raggiungere con la prossima lettura il cosiddetto tipping point, ingranando fin dal dato di agosto una traiettoria gradualmente discendente.
Soprattutto il dato comparativo della banca tedesca, basato su un modello che lega il break-even a 10 anni con lo skew (un proxy per il premio di rischio sull’aumento dei prezzi) tracciato dall’Università del Michigan, mostra come il dato di medio termine potrebbe subire un netto cambio di sentiment, se la lettura dell’11 agosto dovesse segnare un arretramento rispetto a quella del mese precedente e rientrare in un regime di compressione al ribasso dei prezzi tipico del post-2013. Perché inquietante, quindi? Per quanto rappresentato in questo ultimo grafico:
Fonte: Bloomberg
l’ossessione da market-driver che ormai l’inflazione statunitense ha assunto nel dibattito come coté al più ampio argomento del taper e delle sue oscillazioni, infatti, rischia di oscurare l’esplosione dei prezzi alla produzione in Cina.
A fronte di un CPI cresciuto in maniera modesta (+1,0% su base annua e +5,3% su base mensile annualizzata), il PPI è volato al massimo dal 2008 come conseguenza dell’aumento del prezzo delle commodities e delle crescenti tensioni sulla supply chain globale, costi dei container in testa. Un +9% su base annua e +9,7% su base mensile annualizzata significa aver ampiamente sfondato al rialzo il già esorbitante consensus di Bloomberg per un +8,8%. Ed ecco il problema: a fronte dei focolai di Covid in Cina che hanno già spinto tutte le banche d’affari a rivedere drasticamente al ribasso il Pil del Dragone per il terzo trimestre, quale combinato si rischia di generare da un mix simile? Stagflazione.
Un concetto apparentemente lunare per un’economia come la Cina abituata a tassi di crescita in area 6% strutturale ma che potrebbe complicare decisamente il quadro, soprattutto per la Fed. Se infatti esiste al mondo una certezza è quella basato sul do ut des fra i due formali nemici, Pechino e Washington: il primo garantisce impulso creditizio al sistema globale tramite le iniezioni continue della Pboc, mentre il secondo accetta in cambio di importare la deflazione cinese da super-produzione. Di fatto, utilizzandola come pretesto per tassi bassi e stimolo perenne. Ora, però. la dinamica è cambiata.
Xi Jinping da tempo ha messo a dieta creditizia il sistema cinese, limitando gli interventi a tagli dei requisiti di riserva o iniezioni a breve termine per tamponare i default su bond onshore. In compenso, da un paio di settimane il mercato aveva cominciato a prezzare un ritorno espansivo della Pboc, già intervenuta per placare i tonfi del comparto tech nel timore di contagi a obbligazioni e valuta. Di più, il ritorno del Covid aveva rafforzato questa certezza, poiché eventuali chiusure o ulteriori rallentamenti della crescita - già segnati a giugno e luglio - avrebbero potuto spingere le autorità a un seppur breve ciclo di sostegno.
Ma con un PPI quasi in doppia cifra, cosa si potrà fare? Da un lato, tutto potrebbe essere risolto da una rapida normalizzazione della situazione sanitaria, in grado di scacciare i cattivi pensieri relativi al combinato di inflazione galoppante e bassa crescita. Dall’altro, però, uno stop-and-go così repentino potrebbe spiazzare sia i mercati che la stessa Fed, costretta a fare i conti con un continuo ping pong sulle attese di reflazione. Il tonfo del prezzo del greggio, legato proprio ai nuovi contagi in Cina, parla chiaro a livello di aspettative sulla crescita. Il tutto, dopo che già in luglio l’import petrolifero del Dragone aveva segnato un drastico rallentamento dai massimi record del giugno 2020. Insomma, attenzione a guardare troppo il dito dell’inflazione Usa. Potrebbe eclissare la Luna del rischio di stagflazione della Cina, potenzialmente un evento da reset globale. Nel momento meno opportuno possibile.
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