Trade war: i mercati puniscono la Cina e gli indici asiatici

Ufficio Studi Money.it

23/01/2019

I fattori macroeconomici interni e la guerra dei dazi hanno penalizzato la superpotenza asiatica. Gli indici azionari non hanno fatto eccezione, chiudendo il 2018 con pesanti perdite

Trade war: i mercati puniscono la Cina e gli indici asiatici

Il 2018 è stato un anno difficile per i listini azionari globali, con gli operatori preoccupati per diversi fattori geopolitici, tra i quali spicca la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

La trade war Usa-Cina pesa sull’economia di Pechino

La disputa si è svolta dapprima su toni molto accesi da parte di entrambe le parti, per poi calmarsi con le aperture arrivate in particolar modo dalla seconda economia mondiale.

Recentemente Pechino si è offerta di aumentare le importazioni dall’America fino al 2024. Il nodo più importante da sciogliere però è quello sui settori più avanzati dell’industria. La Cina è infatti accusata di “furto” di tecnologie a discapito delle aziende statunitensi.

Il termine ultimo è il primo marzo 2019, data in cui scadrà la tregua siglata tra le due parti in modo da congelare i dazi programmati a partire dal primo gennaio 2019. Se non si dovesse trovare una soluzione prima, le tariffe sulle importazioni dalla Cina subirebbero un aumento al 25%. Ciò porterebbe a nuove tensioni e ripercussioni che inasprirebbero il conflitto.

Frenata domanda e consumi pesano sul Pil cinese

Oltre alla guerra dei dazi con gli Usa, sulla superpotenza asiatica pesano fattori interni come il rallentamento della crescita dell’economia, pari al +6,6% nel 2018, livello più basso dal 1990. Non solo: nell’ultimo trimestre dello scorso anno, il Pil cinese è aumentato del 6,4%, il minore degli ultimi tre mesi.

Ad aumentare le preoccupazioni degli investitori è anche la diminuzione dei consumi interni, ma soprattutto l’elevatissimo debito, che vale tre volte il prodotto interno lordo del Paese. Anche se le obbligazioni del Governo di Pechino siano detenute perlopiù da creditori domestici, in particolare dalle banche, che in Cina sono sotto il controllo pubblico, il rischio è quello di un’ondata di insolvenze.

In questo quadro, la Cina ha adottato diverse misure a sostegno dell’economia, cercando di rendersi meno dipendente dalle esportazioni, ma la conseguenza più immediata è stata quella di un rallentamento dei mercati di tutta l’area del Pacifico e del Far east asiatico.

L’andamento dei principali indici asiatici

Shangai Composite, grafico giornaliero. Fonte: Bloomberg

Dal punto di vista borsistico nel 2018 lo Shangai Composite ha visto un costante declino delle quotazioni, che hanno lasciato sul terreno il 24,34% di valore. Il downtrend ha poi subito un freno nelle prime battute del 2019, con i corsi che, dopo aver segnato nuovi minimi dal novembre 2014, sono riusciti a completare una figura di double bottom, con neckline identificabile a 2.675,4060 punti.

I prezzi sembrano non riuscire a reggere la pressione di vendita che deriva dal superamento della media mobile a 50 giorni, vero e proprio baluardo resistenziale. A riprova di quanto detto è la seduta di ieri, in cui le spinte a ribasso hanno portato il listino asiatico a perdere l’1,43% dalla chiusura del 21 gennaio scorso. Se nelle prossime sessioni le quotazioni dovessero tornare sotto 2.550 punti, si avrebbe un segnale short, che potrebbero traghettare i prezzi ad un re-test dell’area di concentrazione di domanda a 2.449,1970 punti.

Se invece ci dovesse essere una spinta dei compratori capace di portare l’indice asiatico sopra la duplice resistenza a 2.715 punti si avrebbe la conferma del doppio minimo citato prima. L’obiettivo della figura è area 2.900 punti.

Indice Hang Seng, grafico giornaliero. Fonte: Bloomberg

Più tonico l’Hang Seng, l’indice di Hong Kong, che nel 2018 ha perso il 14,60%. Nelle prime sedute del 2019, la fase di risk-on ha permesso ai prezzi del listino di portarsi sopra la media mobile a 50 giorni, discostandosene nella misura maggiore da quando è iniziata la flessione nello scorso anno.

Questo segnale, indubbiamente positivo, ha però visto i corsi fare i conti con la resistenza statica a 27.259,4297 punti, lasciata in eredità dai top del 3 dicembre 2018. Un breakout di questa zona permetterebbe ai compratori di andare al test della linea di tendenza che guida il downtrend intermedio, ottenuta collegando i massimi del 29 gennaio a quelli del 7 giugno 2018.

Nikkei, grafico giornaliero. Fonte:Bloomberg

Pur non essendo direttamente coinvolto nel conflitto Usa-Cina, anche il Nikkei giapponese ha risentito degli effetti della guerra dei dazi, perdendo nel 2018 l’11,76%. La struttura tecnica del listino del Sol Levante non è positiva. Se infatti i prezzi hanno visto una sostanziale calma fino a settembre 2018, a ottobre è iniziato un sell-off che in poco meno di tre mesi ha riassorbito i guadagni da inizio anno e ha fatto registrare nuovi minimi dal 24 aprile 2017.

Graficamente, i compratori hanno trovato un valido supporto in area 19.000 punti, zona di transito del livello statico del 29 agosto 2017. L’avanzata dei compratori ha poi subito un freno con l’arrivo all’intorno resistenziale di 20.950,1504 punti. A differenza degli indici cinesi però, il Nikkei non è riuscito a riportarsi al di sopra della media mobile a 50 giorni, segnale che denota una più marcata debolezza di fondo.

In questo contesto, è ancora complesso ricercare entrate di matrice long, privilegiando il lato short almeno fino a che non si avrà la rottura della linea di tendenza che collega i top del 2 ottobre a quelli del 3 dicembre 2018.

Il confronto con gli Usa

Confronto normalizzato in base 100 tra Shangai Composite (in azzurro), Hang Seng (in arancio), Nikkei (in rosso) e S&P 500 (in bianco). Fonte: Bloomberg

Confrontando i vari listini appena analizzati con il maggior listino a stelle e strisce, l’S&P 500, salta subito all’occhio come il paniere più legato alle performance dell’america sia il Nikkei, che a differenza dell’Hang Seng e dello Shangai Composite non ha avuto un andamento ribassista nella parte del 2018.

Sia dal punto di vista tecnico che macroeconomico, la principale vittima di questa guerra commerciale è indubbiamente la Cina. Questo potrebbe portare ad un impegno maggiore da parte di Pechino nel ricercare una soluzione al più presto.

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