La guerra in Israele può davvero impattare sui mercati finanziari? Dalle azioni alle obbligazioni, fino ai movimenti di valute e indici mondiali, ecco quanto il conflitto è pericoloso in 5 temi.
Mentre la guerra tra Israele e Hamas assume toni più violenti e preoccupanti dopo l’esplosione di un ospedale a Gaza, le analisi degli esperti finanziari si concentrano sui mercati: cosa può accadere nelle Borse mondiali, già vulnerabili a causa dell’inflazione, delle banche centrali, dei tassi di interesse alle stelle?
Il conflitto nei territori palestinesi e israeliani ha la potenzialità di sconvolgere tutto il Medio Oriente e, di conseguenza, le principali potenze mondiali. Con un crollo della fiducia sulla stabilità globale e con nuovi e inquietanti equilibri/squilibri geopolitici, azioni e obbligazioni rischiano di cadere in un vortice di incertezza e turbolenza.
Non a caso, in queste concitate ore di mercoledì 18 ottobre, si stanno muovendo attori pericolosi nello scacchiere allargato del Medio Oriente. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein AmirabdollahianI ha appena fatto sapere che i membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC) dovrebbero imporre un embargo petrolifero e altre sanzioni a Israele ed espellere tutti gli ambasciatori israeliani.
La reazione della Repubblica Islamica è solo uno dei motivi che più angosciano gli investitori. Secondo gli analisti, ci sono attualmente 5 temi da monitorare con la guerra in Israele e che possono innescare una catena di shock sui mercati.
1. Iran
La nazione più temuta nel Medio Oriente, l’Iran, ha iniziato a farsi sentire con le prime parole del ministro degli Esteri che invoca punizioni contro Israele.
Un maggiore coinvolgimento dell’Iran e una risposta degli Stati Uniti che veda un aumento delle sanzioni sul petrolio del Paese persiano potrebbero cambiare gli scenari finanziari e non solo.
“Un giro di vite sulle esportazioni di petrolio iraniano potrebbe rimuovere immediatamente circa 1-2 mbd (milioni di barili al giorno) dal mercato, quasi istantaneamente”, ha affermato il fondatore dell’hedge fund Cayler Capital, Brent Belote.
Nell’improbabile caso in cui gli Stati Uniti inviassero truppe in Medio Oriente, Belote si aspetta un aumento di 20 dollari - e anche di più - del prezzo del petrolio.
Dall’ottobre 1973 al marzo 1974, quando la guerra dello Yom Kippur provocò un embargo petrolifero sui sostenitori di Israele da parte delle nazioni arabe, il petrolio aumentò di oltre il 300%. Tuttavia, la cornice del conflitto odierno è diversa.
“Israele ha relazioni migliori con gli altri Paesi arabi rispetto ad allora”, ha detto in una nota Madison Faller, stratega della banca privata della JP Morgan, “e l’offerta globale di petrolio non è così concentrata”.
Nadia Martin Wiggen, direttrice dell’investitore in materie prime Svelland Capital, ha aggiunto che un conflitto regionale interromperebbe le rotte delle petroliere nel Mediterraneo, nel Mar Nero e intorno alla Turchia. L’attenzione è massima sullo stretto di Hormuz, dove passano petroliere ogni giorno che trasportano un ammontare di circa il 20/30% del consumo di petrolio al mondo.
2. Inflazione in corsa
L’impennata dell’inflazione si è attenuata e i rialzi dei tassi globali sono prossimi alla fine.
Tuttavia un picco del petrolio, che ha toccato brevemente i 139 dollari dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia lo scorso anno, potrebbe fermare il movimento al ribasso dell’inflazione. I prezzi del gas sono aumentati del 45% la scorsa settimana, un altro segnale preoccupante.
“Se l’Iran venisse coinvolto, ciò significherebbe un aumento dei prezzi delle materie prime, maggiori shock esterni, e questo sarebbe un fattore scatenante per una prospettiva meno disinflazionistica”, ha affermato Alessia Berardi, responsabile della ricerca macro e strategica sui mercati emergenti presso Amundi, sottolineando che questo non era il suo scenario di base.
Gli indicatori di mercato a lungo termine delle aspettative di inflazione negli Stati Uniti e nell’area dell’euro suggeriscono che l’inflazione si manterrà al di sopra degli obiettivi del 2%.
3. Dollaro
La domanda di beni rifugio ha rafforzato il dollaro, spingendolo verso i 150 yen, e il franco svizzero, che venerdì ha registrato la sua giornata migliore contro l’euro da gennaio.
“Il dollaro potrebbe non essere una scommessa a senso unico nel caso in cui il livello elevato del prezzo del petrolio e l’inflazione innescassero una recessione negli Stati Uniti”, ha affermato Berardi di Amundi.
Trevor Greetham, responsabile multi-asset della Royal London, ha dichiarato che qualsiasi mossa globale di avversione al rischio potrebbe anche rafforzare lo yen poiché “gli investitori giapponesi riportano a casa i loro soldi”.
4. Tecnologia
Ciò che è positivo per i titoli petroliferi può essere negativo per la tecnologia.
L’indice MSCI dei titoli tecnologici globali si è mosso in modo inverso rispetto alle azioni di petrolio e gas nel 2022, quando la guerra in Ucraina ha spinto al rialzo il greggio, alimentando i timori di inflazione che sono stati assorbiti dai rendimenti obbligazionari più elevati.
Questo modello potrebbe ripresentarsi, ha detto Greetham della Royal London, se i tassi statunitensi aumentassero nuovamente per contenere gli effetti inflazionistici dell’ultimo conflitto.
Anche la potenziale interruzione delle infrastrutture rappresenta un rischio. “L’Egitto è un luogo in cui più cavi intercontinentali attraversano la terra in un Canale di Suez digitale”, ha affermato Deutsche Bank. “Almeno il 17% del traffico Internet globale attraversa questa rotta”.
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5. Mercati emergenti
La valuta, le obbligazioni e le azioni di Israele sono state colpite dal recente conflitto, così come quelle di Egitto, Giordania e Iraq e, in misura minore, Arabia Saudita, Qatar e Bahrein.
Dopo un paio d’anni difficili, la guerra Israele-Hamas “è solo un ulteriore fattore che smorza il sentiment dei mercati emergenti”, ha affermato Omotunde Lawal, responsabile del debito societario emergente della Barings.
È cautamente ottimista sul fatto che la maggior parte degli altri mercati emergenti stiano ignorando le tensioni per ora. Anche Morgan Stanley non si aspetta il contagio.
Tuttavia, i campanelli di allarme non mancano e Jeff Grills di Aegon Asset Management ha avvertito che un’escalation regionale potrebbe “facilmente” vedere il petrolio balzare del 20%, colpendo dozzine di Paesi importatori di petrolio già impoveriti.
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